Modulo 5. L’atto di cooperazione fraterna non è atto di impoverimento o di accettazione passiva dell’altrui egocentrismo. Cooperare significa soprattutto “aiutare l’altro a fare ciò che dovrebbe”, risvegliandone il senso della Dignità...

 

 

 

 

1. I contenuti della cooperazione fraterna: “aiutare l’altro a fare ciò che dovrebbe”. La cura del Sé

2. L’apertura alla fraternità e all’universalità non annulla il nostro ’Io”, al contrario, rafforza il nostro Sé superiore.

3 L’assoluta separazione tra gli esseri umani è apparente e illusoria. Siamo parte della Rete della Vita. Dall’Io al Noi

4. La cooperazione, potente agente di educazione civica

5. Appendice: la visione scientifica della realtà esteriore

1 I contenuti della cooperazione fraterna: “aiutare l’altro a fare ciò che dovrebbe”. La cura del Sé.

“L’aiuto fraterno dovrebbe essere finalizzato a che “l’altro” che attraversa un momento deficitario prenda coscienza del proprio compito e lavori poi in direzione costruttiva”

La legge di cooperazione fraterna che già vive in noi ci aiuta a comprendere anche i reali contenuti comportamentali della fraternità e a superare alcuni luoghi comuni idonei a creare una certa confusione e anche certi timori.
La fraternità non può identificarsi con la generosità materiale, la povertà assoluta, la deresponsabilizzazione o con il buonismo. Spesso, la fraternità è concepita come abbandono di tutto, sopportazione e tolleranza verso tutto, apertura indiscriminata a tutto e a tutti, disponibilità a subire, etc. Nella idea di fraternità civica si canalizzano, spesso, impropriamente, anche frammenti comportamentali delle vite particolari condotte dai mistici... Per tali ragioni, la fraternità suscita molti timori nelle persone. Ma in realtà, la fraternità non è passività, è attività in positivo e costruttiva, come lo è quella svolta dai nostri organi. L’organismo, è notorio, è dinamico, forte, si protegge dalle influenze nocive che possono perturbarlo. La cooperazione è improntata alla massima ragionevolezza, non comporta aggressione ma esige protezione e sviluppo della vita. La legge di cooperazione fraterna, parimenti, non ricomprende al suo interno forme di lassismo o di approfittamento, talvolta, giustificate in materia sociale sulla base di un buonismo che in realtà non è riflesso di bontà, e che in aggiunta, getta ombre e sfiducia anche sulla fattibilità della stessa fraternità. Il buonismo in questione, a ben vedere, non è una bontà eccessiva, ma iniquità diseducativa.
Infatti, il vero aiuto fraterno, a nostro avviso, è finalizzato a che “l’altro” (chiunque egli sia) che attraversa un momento deficitario prenda coscienza del proprio compito e lavori poi in direzione costruttiva e fraterna. L’aiuto fraterno è sì una apertura, ma finalizzata al risveglio della coscienza dei propri compiti e della propria dignità e non verso il mero soddisfacimento dei bisogni materiali fini a se stessi. Afferma Aïvanhov, giustamente, che “la meilleure charité c'est d'éclairer les êtres, ce qui leur permet de s'aider eux-mêmes“ (1). Non a caso già Paolo di Tarso invitava le prime comunità cristiane a rispettare il precetto secondo il quale “chi non intende lavorare neppure mangi” (2), sottolineando, in tal modo, implicitamente, che le attitudini egocentriche non debbono essere sostenute nella collettività, ma vanno curate. Concetto alquanto ostico ai tempi di oggi. Nella visione materialistica, frutto dell’approccio predatorio, la felicità e la dignità sono correlati ai beni materiali che si possono acquisire nel mercato e che si possono detenere e consumare, anche con l’astuzia. E molti si son lasciati persuadere che sia effettivamente così. Oggi è forte più che mai l’invito ad “avere”, a legare la costruzione della propria identità a ciò che si riesce a possedere in termini di beni e di ruoli sociali. L’invito a costruire la propria identità con “l’essere” è invece marginale in quanto non è funzionale allo sviluppo dell’attuale ordine socio - economico.


Non a caso, recentemente, Bergoglio ha affermato che occorre cercare di prendere sempre più coscienza del messaggio che ci è stato chiesto di trasmettere agli altri, soprattutto a quanti soffrono di più: «Sii libero! Vai e aiuta i tuoi fratelli a essere liberi!»” (3). La consapevolezza della propria libertà e del necessario sviluppo della propria persona fanno parte integrante della dignità dell’uomo.

La cooperazione fraterna non implica il perdersi negli altri o nelle altrui situazioni, ma comporta l’offrire e il condividere con gli altri i frutti e gli interessi del proprio capitale interiore il quale deve essere custodito, sviluppato e non depauperato. Se si cede il capitale interiore, non si potrà più essere di utilità a nessuno. Questo è un ulteriore equivoco che spesso rende difficile l’accettazione della idea di cooperazione.

Sulla base di quanto precedentemente argomentato, appare coerente con l’idea costruttiva di aiuto fraterno, il concetto di sussidiarietà relazionale, già menzionato, nella misura in cui il suo contenuto “consiste nell’aiutare l’altro a fare ciò che dovrebbe” (4).

Nella nostra prospettiva civica, “aiutare l’altro a fare ciò che dovrebbe”, significa, in primis, aiutare l’altro a prendersi cura di se stesso (5) e della propria dignità per riscoprire la propria identità superiore: “Il precetto di «prendersi cura di se stessi» era per i greci uno dei principi basilari della vita nelle città, una della regole fondamentali della condotta sociale e personale e dell'arte del vivere” (6). Alla cura di Sé, di cui troviamo traccia nei testi platonici, “rinviano oggi varie linee di pensiero, diverse per origine, fondatezza scientifica e fini teorici” (7). Socrate invitava “gli altri a occuparsi di se stessi... per questo servizio egli non richiede alcuna ricompensa, è disinteressato, lo fa spinto dalla benevolenza…la sua missione è utile alla città, più utile della vittoria militare ateniese a Olimpia, perché insegnando a occuparsi di se stessi egli insegna a occuparsi della città” (8). Ma quale era il Sé che occorreva curare e valorizzare? Quando Socrate “decide di fornire un indizio preciso riguardo alla natura del vero Sé, lo fa rinviando esplicitamente alla componente divina dell’anima, ovvero al Sé divino dell’uomo” (9).


In effetti, se non ci occupiamo di noi stessi, cioè del nostro Sé cooperatore, non possiamo sviluppare qualità civiche: l’intuizione socratica appare tuttora valida. La cura del Sé è dunque fondamentale per percepire e vivere la cooperazione fraterna, perché il Sé in questione è proprio quello generatore di fraternità (cfr. amplius, modulo 12). Boff e Hathaway ricordano che la cura è la precondizione che consente all'essere cosciente, razionale e libero di emergere. Solo mediante l'esercizio della cura un essere può, nell'atto stesso di vivere, plasmare Ia propria esistenza insieme agli altri (10).


Coerente con il concetto di cooperazione fraterna ci appare anche la categoria del “dono gratuito ovvero del dono come reciprocità”: “nel dono come regalo, ti do per ricevere, è questa la logica dello scambio di doni, del gift exchange; nel dono gratuito ovvero nel dono come reciprocità, ti do perché tu possa a tua volta dare (non necessariamente a me)”(11). Osserva Zamagni che “nella reciprocità che nasce dal dono, l’apertura all’altro, una apertura che può assumere le forme più varie, dall’aiuto materiale a quello spirituale, determina una modificazione dell’io che, nel suo rientro verso la propria interiorità, si trova più ricco per l’incontro avvenuto”(12). È un dare implicante fiducia verso l’altro, senza avere e chiedere garanzie di reciprocità. Nella prospettiva cristiana, osserva Bruni, la risposta dell’altro (la reciprocità) è coessenziale all’atto altruistico o donativo affinché sia propriamente “agape” […]. Qui si tocca un punto cruciale della logica di ogni autentico rapporto umano […] non c’è azione veramente gratuita (intesa come sinonimo di genuinità e non strumentalità) che non tenda alla reciprocità […] la reciprocità di cui stiamo parlando è un necessario orizzonte di ogni atto umano perché è espressione della vocazione più profonda degli uomini: la fraternità. E la fraternità richiede libertà e uguaglianza. È un bene molto alto, che non può realizzarsi se non tra persone uguali e libere […] non è forse la mancanza di attenzione alla reciprocità una delle principali cause del tutto sommato scarso successo delle varie politiche di aiuto ai “poveri”, siano esse pubbliche o private?” (13)


Si è osservato, a questo proposito, che ”c’è un modo di umiliare gli altri anche attraverso la filantropia e per questo il cristianesimo non ha mai parlato di filantropia”, come abbiamo già osservato (14).
Coerente con l’esprit della cooperazione fraterna ci appare anche il valore della reciprocità nella gestione dei beni comuni. Osserva Zamagni: “qual è il “nemico” del bene comune? Per un verso, il comportamento da free rider, che è quello di chi vive sulle spalle altrui, ad esempio, evadendo o eludendo di contribuire al suo finanziamento; per l’altro verso, l’atteggiamento da altruista estremo, che è quello di chi annulla o nega se stesso per avvantaggiare l’altro. Come ormai noto, entrambi i comportamenti non valgono a risolvere il problema dei beni comuni, sia pure per ragioni diverse. Qual è, al contrario, “l’amico” del bene comune? Il comportamento reciprocante; quello di chi pone in pratica il principio di reciprocità che suona così: “ti do o faccio qualcosa affinché tu possa a tua volta dare o fare qualcosa, in proporzione alle tue capacità, a un terzo o, se del caso, a me”. Invece, il principio dello scambio di equivalenti recita: “ti do o faccio qualcosa a condizione che tu mi restituisca l’equivalente di valore”. La reciprocità, dunque, è un dare senza perdere e un ricevere senza togliere”(15).


Appare anche apprezzabile l’idea di “welfare generativo” così definito in quanto esso, in conseguenza dell’aiuto erogato, genera a sua volta, risorse sociali. In questa nuova modalità relazionale, il soggetto portatore del bisogno, non resta un soggetto passivo, giacché viene sollecitato e coinvolto attivamente “ad instaurare un rapporto di scambio, non con il benefattore ma nei confronti di altri” (16)
Coerenti con l’esprit di cooperazione fraterna appaiono le azioni permeate dai criteri-guida elaborati da un gruppo di studio, a livello accademico, al fine di identificare gli elementi essenziali di un’azione fraterna. Secondo questa ricerca “un’azione fraterna:
1) è compiuta liberamente. Nessuno può essere obbligato alla fraternità;
2) è guidata da una intenzione di bene. L’azione non è compiuta per caso, ma è frutto di una scelta di valore;
3) non misura il proprio vantaggio, ma il bene che l’altro riceve;
4) genera condivisione e reciprocità. Non si limita a dare qualche cosa, ma attiva relazioni di amicizia, di immedesimazione, di condivisione;
5) rispetta il bene comune. Il bene che si fa non danneggia nessun altro e deve essere valutato anche rispetto alle generazioni future;
6) è universale nel senso che colui che compie l’azione non discrimina” (17).
Queste importanti riflessioni non devono comunque indurci a ritenere che la cooperazione fraterna si esprima, esclusivamente, tramite una certa tipologia di atti, in quanto essa è innanzitutto, nella prospettiva da noi accolta, un modo di essere e un modo di vivere. La cooperazione fraterna non si esprime in modo settoriale, ma ovunque, in quanto è una qualità delle nostre energie di vita: quando doniamo gratuitamente il nostro tempo e le nostre energie per la crescita altrui, quando acquistiamo o vendiamo nel mercato beni utili senza voler profittare, quando ci relazioniamo nell’area degli obblighi giuridici, quando ci nutriamo, quando decidiamo di concepire, etc.
La legge di cooperazione fraterna che abita dentro di noi, ci dice che non dobbiamo essere dei profittatori, giacché dobbiamo lavorare e perfezionarci non solo per noi stessi ma anche per gli altri in quanto fanno parte anche di noi: di qui l’importanza di lavorare con disinteresse per la collettività e non soltanto per coloro che fanno parte del nostro piccolo gruppo familiare, amicale, sociale, politico o spirituale. In questa direzione autenticamente fraterna e sociale dovrebbero essere letti i precetti costituzionali laddove promuovono la tutela della dignità, il pieno sviluppo della persona umana, il concorso al progresso spirituale della società, la solidarietà e la sussidiarietà. Tali precetti giuridici sono destinati a restare, evidentemente, formule vuote se non sono supportati dalla presa di coscienza della cooperazione fraterna. Non a caso, l’Italia, malgrado la lungimirante Costituzione, si trova a essere uno dei paesi meno fraterni nella gestione dell’interesse pubblico (18).

 


2. L’apertura alla fraternità e all’universalità non annulla l’Io”, al contrario, rafforza il nostro Sé superiore.

“Se il nostro “Io” si identifica con il sé egocentrico, la fraternità è percepita come fonte di sofferenza, se il nostro “Io” si identifica con il sé altruistico, la fraternità è fonte di benessere”

 

 

La legge della cooperazione fraterna, a ben vedere, supera il dibattito, tutto teorico, tra “individualisti” e “collettivisti” in quanto l’uomo espandendosi sul piano della coscienza e delle relazioni psichiche non si annulla, ma al contrario si rafforza, ritrova il suo vero Sé superiore. Questa espansione è anche un “approfondirsi del Sé” (19). Come già sottolineato in precedenza, andando verso l’esterno non ci perdiamo ma ritroviamo una parte di noi stessi: è una esperienza anche di tipo cognitivo. Peraltro, è notorio che la coscienza empatica è anche fonte di arricchimento per meglio delineare la nostra identità nel mondo.
In questa apertura fraterna, la nostra natura egocentrica (il sé egocentrico) si riduce, mentre la parte altruista (il Sé cooperatore) si amplia. Se il nostro Io si identifica con il sé egocentrico, la fraternità è percepita come fonte di sofferenza, se il nostro Io si identifica con il Sé cooperatore, la fraternità è fonte di benessere. Per inquadrare il senso di questa terminologia dobbiamo ricordarci che l'essere umano è fatto di due nature, cioè che in lui albergano due poli che si esprimono con pensieri, sentimenti e azioni aventi due direzioni contrarie. Il Sé superiore si manifesta con bontà, generosità, pazienza, ragionevolezza, onestà, disinteresse, imparzialità. Il sé inferiore esprime calcolo, crudeltà, cinismo, desiderio di profittare, cioè un insieme di capacità prive di coscienza morale. Dalla sperimentazione sincera della nostra vita, possiamo riconoscere che coesistono in noi una ampia gamma di sentimenti e pensieri e comportamenti riconducibili ai due citati poli. Ma siamo sempre noi a decidere quale natura manifestare in ogni circostanza della vita. Pico della Mirandola ci ricordava che ciascuno di noi ha la libertà di fare di sé ciò che vuole fino a diventare come un'animale o come Dio, usando liberamente a questo scopo tutto il creato 20. Anche Pascal riconosceva con toni coloriti che nell’uomo vi è la componente bestiale e quella divina. Il nostro “Io” si trova al centro tra queste due direzioni, tra queste due nature e deve scegliere dove dirigersi (21).
Gallese ha recentemente stigmatizzato in una prospettiva scientifica la nostra ambivalenza: “l’auto-individuazione è un processo che nasce dalla necessità di liberare il Sé dalla dimensione noi-centrica in cui è originariamente e costitutivamente incorporato. La nostra costitutiva apertura agli altri […] può essere declinata sia in termini di violenza sociale che di cooperazione sociale” (22).
Certamente, non tutti percepiscono la componente divina e non tutti ritengono che esista nell’uomo una componente divina. È paradossale constatare però che talora viene a determinarsi un punto in comune tra coloro che ritengono di essere atei, e forse non lo sono, e alcuni che ritengono di essere religiosi: entrambi sminuiscono la parte divina dell’uomo, i primi, sul piano teorico, per ovvie e comprensibili ragioni in quanto non credono in Dio, i secondi, sul piano pratico, con la asserita finalità di non sollecitare l’orgoglio umano e di non far dimenticare, nemmeno per un attimo, la natura peccatrice dell’uomo. Sui danni pedagogici derivanti da questa ultima prassi interpretativa di matrice religiosa, riduttiva delle speranze di perfezionamento dell’uomo, si è soffermato acutamente, nella prima metà del Novecento, Berdjaev nell’ambito di una prospettiva cristiana (23).
Riprendendo le riflessioni iniziali, possiamo osservare che la fraternità non è, dunque, rinuncia al proprio “Io”, è semmai rinuncia graduale al proprio “sé inferiore”, egocentrico per sviluppare il “Sé superiore”, il “Sé” fraterno. Questa natura superiore tutti noi l’abbiamo avvertita allorché abbiamo compiuto atti generosi senza l’aspettativa di ricevere alcunché. Parimenti, abbiamo avuto modo di percepire anche l’altra nostra natura, il sé inferiore in occasione di atti molto egocentrici.
Beninteso, l’essere umano è sempre unico e in ragione di ciò la rinuncia al sé inferiore non è mortificazione, repressione o eliminazione della parte più egocentrica, essendo anche essa una componente necessaria, ma orientamento, regolazione delle energie più primitive verso finalità altruistiche (24). Questo impegno fa parte della cura del Sé, ma non si insegna nelle scuole, nelle università e nelle famiglie.
Come sostiene giustamente Morin, dobbiamo superare queste arretratezze e addivenire a una visione completa dell’uomo. Occorre palesare “la faccia dell’uomo nascosta dal concetto rassicurante e distensivo di sapiens. È un essere dotato di un’affettività intensa e instabile […] un essere che conosce la morte e che non può crederci, un essere che si nutre di illusioni e di chimere, un essere soggettivo i cui rapporti con il mondo oggettivo sono sempre incerti. Insomma, l’essere umano mostra una personalità estremamente complicata, caratterizzata da una connotazione razionale e da una struttura pulsionale che incide quanto la prima sul suo comportamento quotidiano. Allora, se vogliamo seriamente conoscerlo, dobbiamo guardarlo come uomo a tutto tondo e scorgere bene in lui anche l’aspetto che, a una visione superficiale, non ci piace e che nella nostra cultura è stato volutamente messo sempre in ombra” (25). Se non prendiamo consapevolezza di questa “faccia”, non potremmo evidentemente migliorarla.
La fraternità non è nemmeno una fusione di persone o un mortificante assoggettamento ad una totalità: “alcuni non vogliono fare lo sforzo di armonizzarsi con gli altri perché temono di venire assorbiti dalla collettività. No, ciascuno è un individuo ben distinto, ma pur conservando il carattere che gli è proprio e il modo di essere che gli è proprio, deve lavorare per l’unità… Il fatto che ciascuno continui a vivere la propria vita è normale: nessuno vi chiederà di farvi assorbire da quella degli altri. Avete la vostra vita, avete il vostro organismo… le cellule dell’organismo non sono fuse tra loro: una cellula del cuore non è una cellula dello stomaco. Ciascuna di esse mantiene la propria individualità ma i legami e le affinità che hanno reciprocamente creano tra loro quello stato di armonia che chiamiamo “salute”. Nessuno chiede ad un nero di diventare bianco o ad un bianco di diventare giallo, e nemmeno ad un musulmano di diventare buddhista o ad un buddhista di diventare cristiano… Che tutti mantengano dunque le proprie particolarità, ma che esista tra loro la comprensione grazie alla quale possano formare un’unità sul piano della coscienza” (26). La fraternità non è, dunque, nemmeno livellamento, ma, al contrario, sviluppo delle proprie facoltà, dei propri talenti e delle proprie qualità.
Come aveva ben colto Capitini: “non soltanto non occorre esser privi di personalità, ma proprio una personalità bisogna diventare, e addirittura in un grado assai superiore a quello che si è venuto a determinare in Occidente […]. Una personalità saldamente sviluppata che non prova più alcun timore per se stessa, non potrebbe forse nemmeno fare nessun altro uso, se non darsi tutta per gli altri, perché anche gli altri diventino esattamente altrettante personalità autonome e felici” (27).
Non paiono, quindi, aver fondamento i timori intellettualistici di una fraternità “fusionelle” comportante la perdita di identità individuale e la negazione dei diritti individuali.
Il premio Nobel per la medicina Konrad Lorenz giustamente aveva puntualizzato che “l’uomo non è stato costruito nel corso della filogenesi per essere trattato come una formica o come una termite, elementi anonimi e intercambiabili di una collettività di milioni di individui assolutamente uguali tra loro” (28).


3. L’assoluta separazione tra gli esseri umani è illusoria. Siamo parte della Rete della Vita. Dall’Io al Noi.

“Noi pensiamo di essere isolati, mentre in realtà occupiamo dei nodi entro una fitta rete che ci connette tutti sia nel corpo sia nella mente. Questa connessione non è un mistero”

 

La legge di cooperazione fraterna trova un suo ulteriore fondamento nella considerazione che gli esseri umani non sono effettivamente separati. Evidentemente, ciascun uomo ha un corpo fisico e una sfera emotiva-mentale propria, ma vi è anche una componente comune condivisa in virtù della quale si è affermato che gli uomini possono essere considerati come cellule di uno stesso organismo o come nodi della stessa Rete della Vita.
In altri termini, l’analogia tra funzionamento dell’organismo individuale e il funzionamento della vita sociale, può avere un riscontro anche di tipo oggettivo, se pensiamo ai numerosi studi che collocano la coscienza umana in una dimensione unitaria: uomo - corpo fisico - ambiente. Alcuni studi scientifici affermano, ad esempio, che non vi è netta separazione tra le coscienze. Ha affermato Varela a questo proposito: “Una costante, nell’ambito delle scienze cognitive e delle scienze del cervello, è la semplice assunzione dell’ovvietà che una mente risieda all’interno di un cervello e che quindi la mente degli altri sia impenetrabile e opaca. Ogni violazione di questa separazione spaziale è intesa come un appello a una sorta di energia psichica magica, cosa assolutamente da evitare. La ricerca più recente nella scienza cognitiva sta cominciando a mostrare abbastanza chiaramente che l’individualità e l’intersoggettività sono complementari. Tuttora, non cessa di meravigliarmi che alcuni filosofi della mente abbiano consumato litri d’inchiostro in dibattiti per dimostrare che abbiamo una coscienza e che non siamo circondati da automi. Francamente, trovo tutto questo ridicolo. La questione è esattamente capovolta: la presenza della realtà dell’Altro è così intimamente vicina che la domanda pertinente è addirittura come sia possibile che siamo in grado di giungere alla nozione di essere separati e distinti” (29). Si è pure osservato che “sebbene alcune interpretazioni delle neuroscienze pensino ad un “cervello singolo nel cranio” come la fonte di tutto ciò che è mentale, questa visione ristretta non è la realtà stabilita scientificamente secondo la quale la maggior parte dei cervelli che “vivono” in un corpo sono parte di un mondo sociale composto da altri cervelli. Il cervello è programmato per connettersi con le altre menti, per creare immagini degli stati intenzionali degli altri, delle espressioni affettive e degli stati corporei di arousal che, attraverso la fondamentale capacità del sistema dei neuroni specchio di creare risonanza emotiva, servono come via di ingresso per l’empatia. In questo modo vediamo che la mente è sia relazionale sia corporea” (30).
Anche da un punto di vista semplicemente fisico, “l’idea che vi sia un confine netto tra il sé e il mondo esterno è un’illusione. Il corpo scambia continuamente materia con il mondo esterno: ogni anno si sostituisce il 98% per cento degli atomi nel nostro corpo” (31).
Anche Laszlo evidenzia che “la visione della separazione, l’uno dall’altro, è una visione meccanicistica che non è più supportata dalla scienza […] oggi è importante avere una visione più vasta che vede noi stessi come elementi di un processo più grande, di un processo co-evolutivo […] è essenziale il ruolo dell’educazione e della scuola perché la società capisca l’importanza di questo cambiamento […]. Io, come individuo, sono parte della biosfera e della società, il mio valore basilare è quello di vivere ed essere felice, e questi valori dovranno essere sintonizzati con i valori del sistema di cui faccio parte. Tutti questi sistemi hanno un unico valore di base, che è quello di co-evolvere con gli altri. Pensare che io non sia collegato ad altri porta al disfacimento del sistema, anche finanziario, che osserviamo in questo periodo” (32).

 


Non a caso, forse, molti di noi hanno avvertito, in momenti particolari dell’esistenza quotidiana, la sensazione di essere parte di un tutto, cioè una sorta di "comunicazione empatica silenziosa" (33). Forse ciò è accaduto perché noi viviamo profondamente nella Natura che è un organismo vivo e cosciente di cui siamo anche noi una parte intima. Come abbiamo già evidenziato, è antica l’idea dell’Universo quale corpo vivente. Ci ricorda Sheldrake che prima della diffusione della metafora meccanicistica, “quasi tutti davano per scontato che l'universo fosse come un organismo. Nell'Europa classica, medievale e rinascimentale, la natura era viva” (34). Ciò era noto dunque fin dall’antichità, se pensiamo ad Eraclito quando affermava che “per coloro che sono risvegliati c’è un cosmo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si involge in un mondo proprio” (35). Oppure, pensiamo a Marco Aurelio quando scriveva nei Colloqui con se stesso: “il mondo è come un unico vivente dotato di un unico corpo e di un'anima pura unica; questo devi ininterrottamente considerare. Inoltre per qual modo secondo un unico impulso ogni cosa agisca” (36). Oppure pensiamo, più recentemente, anche ad Aïvanhov quando afferma che “nulla è più importante che vivere in armonia con questo grande corpo nel quale siamo accolti e nutriti, in questa armonia sono inclusi tutti i beni. Colui che lavora per realizzare tale armonia comincia a sentire che tutto il suo essere vibra all’unisono con l’universo, ed è allora che comprende cosa siano la vita, la creazione, l’amore” (37).
Anche Adam Smith, conosciuto come autorevole esponente del pensiero economico liberale, aveva pure ammesso, nella Teoria dei Sentimenti Morali, il principio della sympathy: “per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga che il piacere di contemplarla” (38). È propria dell’Umanità, ricordava Kant, “la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente” (39).
Osserva Gallese che “abbiamo una base neurale condivisa, che ha questa duplice modalità di attivazione: quando siamo soggetti dell'esperienza, dell'agire, del patire, del sentire; ma anche quando siamo solo testimoni di analoghe condizioni che vedono come protagonista l'altro che ci sta di fronte. Questo non l'abbiamo scoperto unicamente noi neuroscienziati, ma è anche il portato di una lunga tradizione di pensiero quale la Fenomenologia che vede il corpo non solo come oggetto fisico (körper) ma anche come corpo vivo (leib), sorgente dell’esperienza vitale che facciamo del mondo. Ancora prima della Fenomenologia, se guardiamo agli illuministi scozzesi, scopriamo come Hume avesse utilizzato la metafora della risonanza (cioè la propagazione in uno strumento musicale della vibrazione da una corda alle altre, che si mettono così a vibrare alla stessa frequenza della prima), per parlare di come affetti ed emozioni si diffondono da un individuo all'altro. Hume utilizzò la stessa metafora da noi scelta molto tempo per descrivere i neuroni specchio“ (40). In effetti, Hume lo aveva già intuito in quanto nel suo “T
rattato sulla natura umana” scriveva che “le menti di tutti gli uomini sono simili nei loro sentimenti e nelle loro operazioni, e non è possibile che qualcuno sia mosso da un’affezione a cui tutti gli altri sono insensibili. Come nelle corde ugualmente tese il movimento di una si comunica alle altre; così tutte le affezioni passano subito da una persona all’altra, e producono movimenti corrispondenti in ogni creatura umana” (41).
Ma, pur sapendo che nella vita avvengono scambi continui tra gli organismi, tra gli esseri viventi, noi pensiamo, afferma l’etologo De Wall, di essere isolati, mentre in realtà “occupiamo dei nodi entro una fitta rete che ci connette tutti sia nel corpo sia nella mente. Questa connessione non è un mistero” (42). Come precisa Capra “una delle scoperte più importanti della comprensione sistemica della vita è il riconoscimento che la rete è lo schema di organizzazione principale di tutti i sistemi viventi. Gli ecosistemi sono interpretati come reti alimentari (cioè reti di organismi), gli organismi sono reti di cellule, e le cellule sono reti di molecole. La rete è uno schema comune a tutta la vita. Ovunque vediamo la vita, vediamo reti viventi. Queste reti non sono strutture materiali ma funzionali cioè composte dalle relazioni tra i vari processi…la rete è sempre uno schema di relazioni” (43).
Gli esseri umani “non sono al di là o al di sopra della rete della vita. Tutti gli organismi, compreso l'uomo, sono nodi in una rete” (44) . Con il concetto di rete, ricorda il sociologo Donati, “non si intende solo evidenziare che gli individui esistono in un contesto di relazioni, ma che c’è una relazione fra questi legami ossia che ciò che accade tra due nodi della rete influenza le relazioni fra gli altri nodi, sia quelli più adiacenti sia quelli più distanti. La rete non è un insieme di individui in contatto fra loro ma è l’insieme delle loro relazioni… la società è essa stessa relazione” (45).
Proprio nella qualità relazionale delle società stanno avvenendo cambiamenti significativi in termini di questa nuova consapevolezza. Ad esempio, Morin nell’evidenziare questi nuovi aspetti relazionali ha parlato di società-mondo per porre in luce che “la specie umana sta divenendo una sorta di macro-individuo vivente unico per la prima volta nella sua lunga storia. [Evidentemente,] il macro individuo non appartiene ad una specie nel senso genetico dl termine” (46). A commento di questo pensiero, osserva Manghi che “il nostro essere densamente interconnessi nel qui e ora di un presente che ha come confini il nostro piccolo pianeta blu… già ora e qui, fa di tutti noi terrestri, che ne siamo o meno consapevoli, un’unica comunità di destino per usare un’altra bella espressione moriniana” (47).
Anche Donati pone in luce che la differenza qualitativa dei cambiamenti sociali odierni sta nel fatto che se la modernità diceva ”io” e lo contrapponeva al Tu (incluso il tu della natura), il dopo-moderno dice ”Noi” relazionale” (48). In effetti, nella nostra realtà globalizzata “la crescente accelerazione del nostro implicarci reciproco ci porta tra le mani la possibilità-necessità di percepire come ogni nostro agire, ogni nostro pensare, ogni nostro sentire siano parti danzanti di un più ampio interagire, interpensare, intersentire […] la possibilità-necessità di riformare radicalmente le nostre più usuali abitudini di pensiero e i nostri paradigmi educativi”(49).
Tutto questo non può non impattare sulla identità della cultura. Dire cultura, osserva Bruni, “non significa soltanto cambiare i valori individuali ma passare ad una diversa percezione del problema, che punti sul “noi”. Il ruolo della cultura consiste non solo nel formare individui con valori intrinseci, ma nel formarli ad una visione “comune” del problema. Si parte fin dall’inizio dalla consapevolezza di un legame tra persone e si ragiona in termini di “noi” (50).
Vi è una pulsione profonda verso il “Noi”, verso la “fraternità”, ha sostenuto Theilard de Chardin. È una tendenza naturale ed inarrestabile: "vi è nelle cose un elemento interno, un'intima struttura coscienziale del reale, alla cui totale e compiuta affermazione l'evoluzione è orientata nella sua inarrestabile marcia in avanti. In questa marcia cosmica della materia verso stadi di organizzazione sempre più complessi […] ogni elemento del Cosmo è concretamente intessuto di tutti gli altri; l’Evoluzione è un’ascesa verso la coscienza: deve quindi culminare in qualche coscienza superiore; siamo attualmente i soggetti di una trasformazione organica profonda di tipo collettivo; noi non abbiamo bisogno di un testa a testa o di un corpo a corpo, ma di un cuore a cuore; è vicino il giorno in cui l’Umanità si accorgerà di trovarsi biologicamente posta fra il suicidio e l’adorazione; l’Universo si unifica solo attraverso relazioni personali e cioè sotto l’influsso dell’amore; nessun avvenire evolutivo può profilarsi per l’Uomo senza la sua associazione con tutti gli altri uomini; in ogni ambito, progredire significa unificarsi” (51).
Occorre, inoltre, considerare che per molti spiritualisti la fraternità poggia sul fatto, non secondario, che abbiamo la medesima paternità divina e cioè che siamo, effettivamente, fratelli in quanto figli e figlie, effettivamente, dello stesso Padre. Anzi, la trascurata consapevolezza di questa filiazione spirituale, secondo Bergoglio, è una delle principali cause impeditive della fraternità: “le etiche contemporanee risultano incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente. A partire dal riconoscimento di questa paternità, si consolida la fraternità tra gli uomini, ovvero quel farsi “prossimo” che si prende cura dell’altro […]. Per comprendere meglio questa vocazione dell’uomo alla fraternità, per riconoscere più adeguatamente gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione e individuare le vie per il loro superamento, è fondamentale farsi guidare dalla conoscenza del disegno di Dio […]. Occorre interrogarsi sui motivi profondi che hanno indotto Caino a misconoscere il vincolo di fraternità e, assieme, il vincolo di reciprocità e di comunione che lo legava a suo fratello Abele” (52).
Certamente, porre un fondamento spirituale all’idea di fraternità può aiutarci ulteriormente a superare lo sguardo dall’alto verso il basso, a fraternizzare con gli esseri umani quale che sia il loro stato. Il pensare che negli altri vi è effettivamente la presenza di Dio, aiuta, afferma Aïvanhov, a percepire la sacralità e la dignità dell’altro, a rispettarlo e a dominare le tendenze istintive alla sopraffazione (53). Come ha osservato Ionesco la nostra coscienza metafisica ci aiuta a non dimenticare quello che siamo, aiuta a capirci meglio: ”una fraternità fondata sulla metafisica è più sicura di una fraternità o di un cameratismo fondati sulla politica” (54).

leggi morali Leggi : La visione scientifica della realtà fisica.

4. La cooperazione fraterna, potente agente di educazione civica.

La visione di cooperazione fraterna che noi abbiamo qui recepito ci appare munita di una base logico-scientifica e di una forte valenza propositiva e formativa.
Questa visione potrebbe sembrare, a prima vista, circoscritta all’individuo e quindi priva di concretezza sociale e di impatto sulla vita collettiva. In realtà, essa è un potente agente di educazione civica in quanto opera beneficamente sulle condotte egocentriche produttive di costi umani, materiali e sociali. La cooperazione fraterna acuisce, infatti, il senso di responsabilità circa le conseguenze delle proprie azioni sulla vita altrui.
Questo approccio interviene anche nell’area sorgiva degli scambi che tutti pratichiamo con gli esseri umani e con la Natura (nutrizione, relazioni affettive, relazioni umane in luoghi di lavoro, etc.), ma anche nell’area genetica della intersoggettività la quale si situa già nella vita intrauterina. Studi, ormai numerosi, comprovano che i comportamenti e gli stati soggettivi della madre, ma anche del padre, agiscono sulla costruzione della identità del nascituro. L’approccio fraterno ci rende consapevoli di tutti i comportamenti che hanno un impatto sullo sviluppo della vita e sul benessere altrui.
In conclusione, se la cooperazione è una modalità essenziale e naturale della nostra vita, se la separazione tra gli esseri è illusoria, ciò vuol dire che la nostra coscienza può potenzialmente arrivare a percepire momenti di questa Vita unitaria e che conseguentemente la nostra vita di relazione può ispirarsi a tale Valore.
La legge della cooperazione esprime, duque, una necessità biologica per la vita e una necessità sociale per la vita collettiva pacifica e armoniosa.
Ma, a questo punto, dobbiamo chiederci: perché il nostro ‘Io’, frutto di fraternità almeno biologica, si oppone alla fraternità, malgrado l’intrinseca ragionevolezza della stessa?

 

 

 

1. O.M. Aïvanhov, Pensées Quotidiennes, 1 mai 1974, Prosveta.
2. Paolo, Lettera ai Tessalonicesi, 3,10.
3. J.M. Bergoglio, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della Pace cit.
4. P. Donati, I fondamenti della sussidiarietà cit.
5. Come ricorda Cambi, la “cura è categoria, oggi, polisemica: è cura del corpo, come igiene e come restauro della salute; è cura sociale, dei gruppi deboli [...] è cura religiosa, come “direzione di anime”. L’esercizio della cura varia in ogni ambito, per fini e per mezzi. Ma viene da chiedersi perché proprio nel nostro tempo tale categoria si sia imposta e per varietà e per centralità. Le risposte possono essere varie, ma tre appaiono fondamentali: 1) per la crescita delle scienze umane, che si sono poste non solo come visione dell’uomo (scientifica, rigorosa, etc.) ma anche come strumenti d’azione, per trasformare, riequilibrare, riorientare; 2) per lo sviluppo che ha assunto oggi la questione del soggetto a livello sociale e psico-sociale, la quale reclama, appunto, di comprenderlo nella sua complessità e di prenderlo in cura, di aiutarlo nella conquista del proprio sé; 3) per la nascita di un sistema sociale che nel creare stato sociale si è fatto carico della vita pubblica e privata dei soggetti, dando ad essi sicurezza, assistenza, “cura” appunto; facendosi carico del loro destino dall’infanzia alla vecchiaia” F.Cambi, La cura in pedagogia: note critiche, www.docenti.unina.it.
6. M. Foucault, L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), a cura di M. Bertani, Feltrinelli, 2007, p. 16. Foucault evidenzia che il tema della cura di sé appare con chiarezza fin dal V secolo a.C., e attraversa, fino al IV-V secolo d.C., tutta la filosofia greca, ellenistica e romana, ma anche la spiritualità cristiana. Gli insegnamenti sulla vita quotidiana sono organizzati intorno al nucleo della cura di sé con lo scopo di aiutare ciascun membro del gruppo nella mutua opera di salvazione, cfr. ibidem.
7. L.M. Napolitano Valditara, Cura, eros, felicità. Sull’antropologia di Platone in Thaumàzein n. 1/2013, p. 121 e segg., www.thaumazein.it. Osserva l’autrice che “L’heauton che Platone prescrive di curare e conoscere non è solo corpo, ma neanche solo intelletto, né solo anima, è ben più articolato e denso (pensiero, ragionamento, memoria, ricordo, emozioni, passioni, desideri, piaceri, dolori, anche fisici) e va conosciuto in tutti questi tratti proprio per potersene curare [...]. Nell’Alcibiade I (128a-e) questo sé è distinto in modo netto «dalle cose a tale sé appartenenti», da ricchezze, agi fisici, onori, beni materiali a cui forse erano dirette le forme tradizionali di cura e che invece, non essendo, secondo Platone, il “proprio” dell’uomo, non meritano di essere oggetto primario o perfino esclusivo di cura” ibidem.
8. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto cit., p. 16.
9. S. Lavecchia, La cura di sé come agatofanía in Thaumàzein n. 1/2013, p. 150.
10. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 518.
11. S. Zamagni, L’economia come se la persona contasse cit.
12. Idem, Gratuità e socialità cit.
13. L. Bruni, Economia e fraternità, 29 novembre 2004, www.edc-online.org.
14. S. Zamagni, Fraternità, sviluppo economico e società civile cit.
15. Idem, Beni comuni e bene comune cit.
16. Idem, Il welfare generativo cit.
17. United world project, Atlante della fraternità universale, Città nuova, 2014, p. 38. Cfr. anche il sito dell’Università Sophia, www.iu-sophia.org/it.
18. Cfr. la classifica stilata ogni anno tra i vari Paesi sulla base di indici di trasparenza curati da Transparency International, www.transparency.it.
19. L. Boff - M. Hathaway, op. cit., p. 208.
20. Cfr. sul punto il commento di Colozzi, Il paradigma relazionale nelle scienze sociali: le prospettive sociologiche, a cura di P. Donati e I. Colozzi, Mulino, 2011, pp. 430-431.
21. O.M. Aïvanhov, Natura umana e natura divina, Prosveta, 1996; Idem, “Il Sé superiore” in Opera omnia n. 17, Prosveta. Nella stessa Natura che ci circonda possiamo osservare manifestazioni poetiche della vita (pensiamo al fluire dei ruscelli, alle cime delle montagne, alla generosità del Sole, alla protezione della prole, alla cooperazione, etc.) e manifestazioni meno poetiche (pensiamo alle sabbie mobili, alle paludi, alle lotte predatorie, etc.). Molte volte per legittimare comportamenti umani opinabili affermiamo che essi sono conformi alla Natura, senza precisare, però, a quale aspetti della Natura intendiamo riferirci. Cfr. Idem, La natura naturale e la natura antinaturale in La Chiave essenziale cit.
22. V. Gallese, Le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività cit.
23. N.A. Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaca Book, 1994. Cfr. O.M. Aïvanhov, Voi siete dèi. L'essenza divina che è in noi, Prosveta, 2007.
24. L’uomo, rileva Aïvanhov, non può separarsi dalle due nature, ma deve lavorare su di esse per regolarle. Grazie a questa regolazione può proseguire sul suo cammino durante la vita sulla terra. È importante che l’uomo prenda coscienza di questa ambivalenza per vincerla e superarla. Se nei Testi Sacri è scritto "Voi siete delle Divinità" è per ricordare all’uomo la presenza nascosta in lui di una essenza superiore che egli deve apprendere a manifestare, cfr. Natura umana e natura divina cit.: “L'uomo che si identifica con la sua natura superiore riesce a ritrovare se stesso, a «conoscersi», vale a dire a prendere coscienza di sé come parte della Divinità stessa... e se purtroppo (gli uomini) somigliano spesso ad animali che si divorano e si uccidono a vicenda, è perché la coscienza che hanno di se stessi è collocata troppo in basso, in una regione in cui ci si vede limitati, separati dagli altri. In realtà, siamo tutti una sola cosa” Idem, Voi siete dèi cit.
25. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Feltrinelli, 1994, p. 93.
26. O.M. Aïvanhov, Pensieri Quotidiani, 30 marzo 2014, Prosveta.
27. M. Jasonni, Rileggendo Capitini, in Liberalsocialismo e non violenza, Firenze, 2009, p. 65.
28. K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, 1974, p. 18.
29. F.J. Varela, Quattro pilastri per il futuro della scienza cognitiva, in Pluriverso, V, 2000, p. 55.
30. Daniel J. Siegel, prefazione a Manuale di Psicoterapia Sensomotoria, P. Ogden, K.Minton, C. Pain, Istituto di scienze cognitive editore, Roma, 2012.
31. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 207. A un livello più profondo,”non esiste un vero confine tra il nostro sé e il resto del mondo. Quando tocchiamo un oggetto, lo percepiamo solido come se ci fosse un limite ben definito che ci separa. Secondo i princìpi della fisica, tale sensazione è dovuta al fatto che ogni cosa è composta di atomi, e la solidità è la percezione degli atomi che urtano tra loro […] quando tocchiamo un oggetto i nostri campi d'energia (e le relative nubi di elettroni) si incontrano, minuscole porzioni si fondono e si separano. Anche se percepiamo noi stessi come integri, in realtà abbiamo ceduto parte del nostro campo energetico a quell'oggetto specifico, acquisendo in cambio un brandello della sua energia. A ogni incontro noi procediamo a tali scambi, e in seguito ci ritroviamo leggermente cambiati […] è evidente che tutti noi siamo connessi con il resto del mondo fisico, condividiamo di continuo porzioni dei nostri campi energetici. È quindi di conseguenza al livello quantico siamo tutti interconnessi. I nostri sensi «limitati» creano l'illusione che esista un mondo solido, ma se avessimo «occhi quantici» e riuscissimo a vedere il regno quantico, scopriremmo che ciò che in quello fisico consideriamo solido in realtà oscilla dentro e fuori da un vuoto infinito alla velocità della luce”, D. Chopra, Le coincidenze cit., pp. 21-22.
32. E. Laszlo, Intervento al Convegno: “La rete della Vita, verso una visione integrata della realtà, 27 novembre 2009, Iseo.
33. ”Studi internazionali, tra cui quelli elettroencefalografici condotti presso l’Universitad Nacional Autonoma del Mexico dal Prof. J. Greenberg-Zylberbaum e J. Ramos, confermano la tesi neurofisiologica secondo cui i campi neuronali possono interagire e influenzarsi a vicenda senza l’uso dei normali canali di comunicazione esterna. Nel loro esperimento hanno dimostrato che esiste un fortissimo aumento di coerenza tra le onde elettroencefalografiche dei cervelli di soggetti, quando entrano in "comunicazione empatica silenziosa" […]. Chiunque abbia vissuto pienamente l’esperienza di meditazione in gruppo, conosce l’incredibile sensazione di essere tutti parte di un’unica energia, come le cellule di uno stesso organismo vivente […] pensiamo al sentimento di gruppo che si prova quando sentiamo una opera a teatro o l’inno nazionale” N.F. Montecucco, Cyber. La visione olistica. Una scienza unitaria dell'uomo e del mondo, Mediterranee, 2000, p. 246.
34. R. Sheldrake, Le illusioni della scienza cit., p. 2 e segg. L’idea organicista della Natura è ritornata in auge fin dal secolo scorso. Osserva Rifkin che ”negli anni Settanta lo scienziato britannico James Lovelock e la biologa australiana Lynn Margulis hanno sviluppato la teoria di Vernadskij formulando l'ipotesi... in cui affermano che la terra funziona come un organismo vivente autoregolantesi […]. L'interazione e i feedback costanti fra le creature viventi, i composti geochimici e i cicli naturali agiscono come un sistema unificato, mantenendo il clima e l'ambiente della terra e preservando la vita. Il pianeta, dunque, è qualcosa di molto simile a una creatura vivente, a un'entità autoregolantesi che si conserva da sola in uno stato stabile adatto alla propagazione della vita […]. Da più di vent'anni l'idea che la terra funzioni come un organismo è diventata un fondamentale strumento di indagine per ripensare il rapporto fra biologia, chimica e geologia”, J. Rifkin, op.cit., pp. 553-554. Una nuova visione del cosmo si è fatta strada, hanno scritto L.Boff - M. Hathaway: il cosmo non solo è un unico organismo che funziona in modo olistico ma è un processo che evolve, si dispiega e si ricrea costantemente, op.cit., p. 51.
35. Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli, 2009, p. 159.
36. Marco Aurelio, Colloqui con se stesso, Libro IV, 40. Gli uni cooperano con intelligenza e consapevolezza, gli altri cooperano senza saperlo, ivi, VI, 6,1. Cfr. su questo ultimo concetto le riflessioni di P. Hadot, La cittadella interiore, Vita e pensiero, 1996, p. 57.
37. O.M. Aïvanhov, Pensieri Quotidiani, 6 aprile 2014. Prosveta
38. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, 1995, p. 81 segg.
39. I. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, 1982, p. 220.
40. V. Gallese, Le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività cit.
41. D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, 2001, pp. 1133-1135.
42. F. de Waal, op. cit., p. 96.
43. F.Capra, Dal mondo come macchina al mondo come rete, Wall Streat International, 31 luglio 2014.
44. L.Boff - M. Hathaway, op. cit., p. 130. Questi autori aderiscono sul punto al pensiero di Arne Naess.
45. P. Donati, Sociologia della relazione, Mulino, 2013, pp. 99-100.
46. S. Manghi, Educarci alla Società-mondo cit., p.111. Cfr. E. Morin, Il metodo, la vita della vita, Cortina, 2004, pp. 165-166.
47. Ivi, p.108.
48. P. Donati, Sociologia della relazione cit., p.156.
49. S. Manghi, Educarci alla Società mondo cit., p. 109. Cfr. Idem, La conoscenza enologica, attualità di Gregory Bateson, Cortina, 2004.
50. L. Bruni, L’economia nell’era dei beni comuni: la tragedia, le sfide, le possibili soluzioni, www.matematica.unibocconi.it.
51. T. de Chardin, La Signification et la Valeur constructrices de la Souffrance cit.
52. J.M. Bergoglio, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della Pace cit.
53. O.M. Aïvanhov, Voi siete dèi cit.
54. E.Ionesco, Intervento al Meeting per l’amicizia fra i popoli, 1987, ilsussidiario.net.
55. M. Ammaniti, V. Gallese, La nascita dell'intersoggettività, Cortina, 2014. Cfr. O.M. Aïvanhov, L’educazione inizia prima della nascita, Prosveta, 2000.

 

Mappa cliccabile degli argomenti

PRIMA PARTE

Riflessioni storiche sul nostro travaglio collettivo e individuale

Modulo 1. Premessa storica. Riflessioni sull'evoluzione nella società delle idee laiche di solidarietà e fraternità.

SECONDA PARTE

Ricognizione del pensiero recente, maturato in tema di cooperazione e fraternità in prospettiva laica e sociale

Modulo 3. L’appello della cultura, nell’era della globalizzazione e delle interdipendenze, al valore di cooperazione, indispensabile quanto la libertà e l'uguglianza.

TERZA PARTE

La società e la Rete della vita. Riflessioni a supporto delle nostre scelte e di un possibile percorso di cambiamento verso una coscienza aperta agli interessi della collettività.

QUARTA PARTE

Ripensare le basi concettuali dell’educazione alla cittadinanza. Alle radici della questione morale...

Modulo 11 bis Il processo di adeguamento interiore alle prescrizioni civiche

QUINTA PARTE

Linee di sviluppo di nuove attitudini concrete, espressive dei valori di cooperazione, empatia...

Modulo 12. Mappa delle attitudini significative in coerenza con la visione sistemica della Vita

Attitudine a percepire la comune appartenenza alla Rete della Vita. La cura di se stessi
Attitudine alla scelta degli Ideali, pensieri e sentimenti per manifestare comportamenti civici
Attitudine alla scelta delle intenzioni
Attitudine alle relazioni empatiche. La rilevanza civica della empatia
Attitudine alla rivalutazione e alla sacralizzazione della vita quotidiana
Attitudine alla rivalutazione del corpo fisico e del suo apporto cognitivo
Attitudine a sperimentare il gusto e la pienezza della vita: la “scienza della Vita”
Attitudine a valorizzare il bene relazionale e i beni comuni
Attitudine alla rivalutazione del lavoro
Attitudine al dimensionamento dei bisogni individuali
Attitudine all'assunzione delle cariche pubbliche. L’esempio
Attitudine a relazioni improntate ai valori di giustizia
Attitudine al rispetto dell’ambiente interiore ed esteriore
Attitudine a vivere come cittadino dell’Universo