Attitudine al dimensionamento dei bisogni individuali
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“Non si tratta soltanto di adottare stili di vita improntati alla sobrietà ma di aprire la nostra coscienza, nel quotidiano, agli interessi sensibili della Rete della Vita… dalla crescita quantitativa dobbiamo arrivare alla crescita qualitativa”
La crisi economica spinge tutti noi ad accedere a una nuova prospettiva in merito al valore delle risorse che consumiamo per alimentarci e alla dimensione reale dei nostri bisogni materiali. La minore disponibilità di risorse fisiche, come ha ben evidenziato Berry, ci obbliga a spostare la direzione della nostra energia psichica verso la nostra interiorità, cercando forme di appagamento mediante nuove esperienze del Sé coerenti con il Cosmo e le altre creature (1). Accettare l'autolimitazione nella sfera materiale ci costringe a spostare la nostra idea di progresso "dal piano dell'accumulazione della ricchezza a quello dell'approfondimento della sfera spirituale, dell'ampliamento della diversità e del rafforzamento dei legami basati sulla relazionalità e sulla reciprocità”(2).
Edmondo Berselli,
nella sua ultima opera, ci avvertiva che forse avremmo assistito “allo
svilupparsi di una società nevrotica, spaventata dalla crisi del welfare,
incapace perciò di guardare con sicurezza al proprio avvenire e mossa
da spinte autodistruttive. Come terapia sociale, occorrerà guardare alla
nostra storia, per vedere su che cosa si è fondata […] noi europei proveremo
a vivere sotto il segno meno: meno ricchezza, meno prodotti, meno consumi.
Più poveri, insomma. Non ci siamo abituati, ma non sembra esserci alternativa
plausibile […]. La scelta è fra essere poveri nella consapevolezza della
propria condizione storica e antropologica, da un lato, e dall'altro essere
poveri nell'assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto, nella sorpresa
dell'indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili.
Occorre accingerci a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì
della minore ricchezza. Di un benessere più limitato, e sapendo che questo
minor benessere si ripercuoterà su ogni aspetto della nostra vita […].
Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca […]. Se il
mondo occidentale andrà più piano, anche tutti noi dovremo rallentare.
Proviamoci, con un po' di storia alle spalle, con un po' d'intelligenza
e d'umanità” (3).
L’attitudine alla riqualificazione e al dimensionamento dei nostri bisogni appare, dunque, oggi importante. Il pianeta in cui viviamo “è limitato: c'è solo una data quantità di aria e acqua pulite e una data quantità di terreno fertile. Anche l'energia disponibile non è infinita (è rigenerata dal Sole, certo, ma a un ritmo ben preciso). Poiché tutte le economie e tutti gli esseri umani hanno bisogno di questi elementi essenziali ma non infiniti, è evidente che sussistono dei limiti alla crescita” (4).
Occorre necessariamente transitare dalla crescita quantitativa alla crescita qualitativa: “La crescita è una caratteristica centrale della vita, una società o un’economia che non crescono prima o poi moriranno. Però nella natura la crescita non è lineare, né illimitata, mentre alcune parti degli organismi e degli ecosistemi crescono altre decadono, liberando così e riciclando le proprie componenti che a loro volta diventano risorse per una nuova crescita. Questo tipo di crescita equilibrata e sfaccettata è ben nota ai biologi e agli ecologi, la chiamiamo crescita qualitativa, in contrapposizione alla crescita quantitativa, quel concetto economico attuale misurato con l’indice indifferenziato del Prodotto Interno Lordo. Quella che si chiama crescita oggigiorno è più che altro spreco, oggi abbiamo un’economia dello spreco e della distruzione. Crescita qualitativa è una crescita che valorizza la qualità della vita attraverso la generazione e la rigenerazione” (5). Perché, si chiedono Boff-Hathaway, “molti economisti insistono nel dire che la crescita economica illimitata e indifferenziata è giusta e necessaria? Questa convinzione è da imputare in parte alla confusione tra crescita e sviluppo. Come evidenzia l'economista Herman Daly, “la crescita è l'incremento quantitativo per assimilazione e accumulo di materiali, mentre sviluppo è miglioramento qualitativo, realizzazione di potenzialità”(6).
Il passaggio da una crescita quantitativa a una qualitativa “richiederà
cambiamenti non solo a livello sociale ed economico, ma anche a livello
individuale. Significherà oltrepassare il condizionamento culturale pervasivo
di stampo materialistico e trovare soddisfazione nelle relazioni umane
e comunità invece di trovarlo nel consumo materiale. Per la maggior parte
di noi, questo passaggio di valori non è affatto facile, perché siamo
bombardati quotidianamente con un flusso di messaggi pubblicitari che
ci assicurano che l'accumulo dei beni materiali è la strada giusta per
la felicità, lo scopo primario delle nostre vite” (7).
Va, comunque, riconosciuto che l’iniqua distribuzione delle risorse e
la progressiva riduzione naturale delle stesse occupano un posto di primo
piano nel “pensiero responsabile” di molti cittadini e di numerose istituzioni.
Come è noto, il numero di abitanti sta progressivamente aumentando su
alcune parti del pianeta, soprattutto, nelle aree più povere. In altre
aree del pianeta, invece, ove vi è maggiore benessere economico, il numero
di abitanti sta diminuendo. Attualmente, la popolazione sulla Terra, superiore
ai sette miliardi, è ritenuta molto elevata. Il numero di abitanti non
è evidentemente ininfluente in quanto, come spiegano gli esperti, ad ogni
essere umano corrisponde una
quota di natura a disposizione, stante il carattere limitato delle
risorse. In particolare, l'impronta
ecologica rappresenterebbe l’unità di misura della domanda di risorse
naturali fruibile da parte dell'umanità (8). Le analisi quantitative effettuate
comprovano l’esistenza di un equilibrio imprescindibile da rispettare
ma il “consumo umano usurpa una fetta sempre più grossa della ricchezza
naturale del pianeta […] tecnicamente assistiamo all’esaurimento delle
“fonti terrestri”: l’umanità divora le ricchezze comuni del pianeta più
velocemente di quanto queste riescano a rigenerarsi” (9).
L’organismo, come precisava
Ludwig von Bertalanffy, “non è un sistema statico chiuso verso l’esterno
e tale da contenere sempre gli stessi componenti: è un sistema aperto
[…] e che, rispetto all’ambiente esterno, è in una relazione continua
di scambio di materiali”. Ogni organismo vivente "si trova in un
processo costante di cambiamento del mondo in cui vive prendendo dei materiali
ed espellendone altri. Ogni atto di consumo è anche un atto di produzione
e viceversa. Quando consumiamo del cibo, produciamo non solo gas ma anche
prodotti solidi di scarto, che sono a loro volta i materiali di consumo
di altri organismi" (10).
Il meccanismo di equilibrio su cui poggia il pianeta è presente anche nei geni come principio di ‘autoregolazione’, come insegnano i genetisti: “per ogni ambiente la natura ha previsto un numero appropriato. Se una specie animale supera un certo numero, la sua popolazione inizia a decrescere […] lo stesso fenomeno si ritrova nei geni […] i nostri geni sono programmati per mantenere un numero appropriato e la morte è una parte essenziale di questo processo […] viceversa, uno sguardo al comportamento umano suggerisce che abbiamo perduto l’arte di autoregolarci a mano a mano che si è avvicinata l’era moderna” (11).
Ad esempio, la nostra nutrizione anche sul profilo quantitativo offre un importante banco di prova delle nostre attitudini civiche nel quadro di una relazione equa e cooperativa rispetto a tutti gli interessi coinvolti nel processo nutrizionale. Intendiamo evidenziare, ad esempio, che la nutrizione nei paesi del benessere economico contiene almeno un germe di iniquità (12) nei seguenti termini: come è noto a tutti, assumiamo una quantità eccessiva di cibo rispetto al personale fabbisogno. A causa di ciò, riduciamo le risorse a disposizione di tutta la collettività, cagioniamo danni alla nostra salute e produciamo maggiori oneri finanziari connessi ai costi sopportati dalla collettività in termini di cura della salute (13). Pur avvertendo che forse siamo in errore, pur avvertendo che siamo più infelici adesso che abbiamo apparentemente tante risorse da consumare, fatichiamo a cambiare direzione. Si dirà che non riusciamo a proteggerci dai messaggi informativi che, per tanti anni, ci hanno trasmesso la credenza secondo la quale il maggiore consumo di risorse, in tutti i campi, produce un benessere più intenso. Eppure, il contenuto errato del messaggio appare palese: lo sanno bene tutti coloro che hanno vissuto in epoche o in situazioni in cui i consumi di risorse erano molto ridotti. Gli eccessi, tutti ormai possiamo sperimentarlo, riducono il gusto della vita.
Vi è un nesso profondo tra livello di risorse consumate (in tutte le manifestazioni
umane) e lo stato di benessere interiore. Laddove si ecceda nel livello
del reale bisogno, subentra, dopo la provvisoria e apparente contentezza,
uno stato di insoddisfazione. Infatti, molti si chiedono perché oggi appaia
essersi sbiadita la capacità di gioire, malgrado l’assenza di limitazioni
nel procurarsi i piaceri di varia natura. Forse, dovremmo riflettere maggiormente
su questi processi interiori per arrivare a una
sorta di spending review interiore in quanto il consumo “non giustificato”
di risorse, a ben vedere, non ci fa stare bene con noi stessi.
Si dirà che lo stile di vita è questione privata. Questo è vero solamente
sotto il profilo giuridico, in quanto il nostro stile di vita, in realtà,
condiziona anche la sostenibilità della vita altrui. Uno stile di vita
egoistico danneggia se stessi, ma anche gli altri. La vita senza misure,
preconizzata talora anche dagli “artisti” per fare presa sugli adolescenti,
non è, a ben vedere, una vita coraggiosa, è semplicemente una vita egoistica,
cioè una vita calibrata sull’ego.
Il cd. «paradosso
della felicità», al quale abbiamo già accennato, dimostra che nel
corso della nostra vita il reddito e la felicità non sembrano aumentare
assieme (14) in quanto la correlazione tra reddito e benessere delle persone,
o tra benessere economico e benessere generale è modesta. Dovremmo, quindi,
rinunciare all’idea illusoria che l’assunzione di maggiori quantità di
risorse, al di là dei nostri bisogni effettivi, possa produrre uno stato
di maggior benessere. Dovremmo avere il coraggio di optare per l’assunzione
di dosi più piccole e sperimentare se esse procurano effettivamente (come
molti ritengono) maggiore gioia e salute. Questo appare, oggi, un aspetto
fondamentale di uno stile di vita equilibrato, di uno stile di vita che
punti non alla rinuncia, ma ad un dosaggio di risorse più misurato, ovvero,
“omeopatico” in senso figurato.
Il
dosaggio coerente al nostro reale fabbisogno ci permetterà di essere più
giusti, sia verso il nostro organismo, evitando che le nostre cellule
e i nostri organi siano sottoposti a sovraccarichi fisiologici dannosi,
sia verso gli altri, evitando di sottrarre alla Natura e all’Umanità risorse
importanti.
Se ci osserviamo, percepiamo facilmente, al
momento di nutrirci, quando spostiamo nel cibo, impropriamente, gratificazioni
connesse ad altre possibili manifestazioni del nostro essere. In questi
casi, la nutrizione eccessiva diventa una sorta di appropriazione di risorse
altrui, con un effetto auto-soffocante per le manifestazioni interiori:
l’ingordigia alimentare, si sa, può diventare tiranna a un punto tale
da offuscare la nostra coscienza e la nostra libertà, come hanno ampiamente
illustrato gli specialisti del settore.
Dunque, non si tratta soltanto di adottare stili di vita improntati alla sobrietà in senso stretto (ciò apparirebbe riduttivo, anche se il termine è molto in voga), ma di aprire la nostra coscienza, nel quotidiano, a tutti gli interessi sensibili della Rete della Vita di cui noi siamo intimamente parte. Se proveremo a nutrirci mediante equilibrio, potremo riuscire, forse, ad esprimere nella nostra vita maggiore fierezza, poiché ci sentiremo in armonia con il valore di equità che tutti possediamo interiormente, e maggiore bellezza, poiché riscopriremo (tramite il cibo) una nuova relazione delicata e poetica con la Natura che è, realmente e non metaforicamente, una parte di noi (cfr. par.5).
1.
L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 502.
2. Ibidem.
3. E. Berselli, L’economia giusta cit., p. 84.
4. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 68.
5. F. Capra - P.L. Luisi, op.cit., p. 473.
6. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 68. Il pensiero di H. Daly è tratto
da Oltre la crescita: l'economia dello sviluppo sostenibile, Edizioni
di Comunità, 2001.
7. F. Capra - P. L. Luisi, op.cit., p. 474.
8. Impronta ecologica è “un termine con cui si indica il determinato "peso"
che ognuno di noi ha sulla Terra. L'impronta ecologica è un metodo di
misurazione che indica quanto territorio biologicamente produttivo viene
utilizzato da un individuo, una famiglia, una città, una regione, un paese
o dall'intera umanità per produrre le risorse che consuma e per assorbire
i rifiuti che genera, cfr. www.wwf.it. Secondo le stime del Global Footprint
Network, “la domanda di servizi ecologici da parte dell'umanità eccede
la capacità rigenerativa (quindi l'offerta) del sistema Terra. La differenza
tra domanda e offerta si traduce con l'espressione sovraccarico ecologico
[…] l'umanità intera conduce un tenore di vita al di sopra delle proprie
possibilità” www.footprintnetwork.org.
9. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 61.
10. L. Von Bertalanffy, Teoria Generale dei Sistemi, Mondadori, 2004.
Cfr. L. Margulis - D. Sagan, Microcosmo. Dagli organismi primordiali all’uomo
cit.
11. K. Murakami, Il Codice Divino della Vita, Mediterranee, 2010.
12. Pensiamo anche agli effetti connessi al consumo di carne animale:
“Pensa ai liquami che filtrano nelle falde acquifere, alle foreste disboscate,
all'anidride carbonica e al metano che intrappolano il globo in una cappa
calda. Sì perché ogni hamburger equivale a 6 metri quadrati di alberi
abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell'effetto serra. Ma pensa
anche alle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla tua
bistecca. E non dimenticare che 840 milioni di persone nel mondo hanno
fame e 9 milioni ne hanno tanta da morirne. Il 70% di cereali, soia e
semi prodotti ogni anno negli Usa serve a sfamare animali [...] la deforestazione
per creare pascoli significa desertificazione [...]. Quasi la metà dell'acqua
dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti
per il bestiame [...] è stato calcolato che un chilo di manzo beve 3.200
litri d'acqua [...]. Non solo: l'allevamento richiede ingenti quantità
di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici”
www.progettogaia.it.
13. Anche il sito istituzionale del ministero della Salute dedica numerose
pagine ai comportamenti alimentari: cfr. il progetto “Guadagnare Salute
- Stili di vita”.
14. L. Bruni, Felicità, economia e beni relazionali, Nuova Umanità 59/2005,
pp. 543-556.