Attitudine alla rivalutazione del lavoro “Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo” |
Coerente con la rivalutazione della nostra vita quotidiana è anche la rivalutazione del lavoro. Ma tutto ciò che fa occupazione non è detto che sia lavoro, tutto ciò che reca comodità non è detto che rechi benessere.
Come spiega l’economista Zamagni,
”per secoli, l’umanità è andata avanti con il pensiero che all’origine
di ogni ricchezza c’è il lavoro umano, poteva trattarsi del lavoro manuale
o intellettuale, dei campi o dell’industria [...]. Adam
Smith, nel 1776, apre la sua opera fondamentale su ‘La
ricchezza delle nazioni’ con questa affermazione: “all’origine della
ricchezza c’è il lavoro”. Ma oggi si è affermata l’idea che, all’origine
della ricchezza non c’è il lavoro, ma l’attività speculativa in ambito
finanziario [...] e quindi che non occorre lavorare, se io riesco a far
soldi in altro modo. Il lavoro viene derubricato ad attività secondaria,
la prima è l’attività speculativa. Questo viene chiamato in termini tecnici
finanziarizzazione
dell’economia: l’attività economica per eccellenza non è più la produzione
delle cose, dei beni, delle merci, a seconda dei settori, ma l’attività
finanziaria. Con la speculazione finanziaria, si può diventare ricchi
in pochi giorni: se uno ha un po’ di fortuna, ci sa fare e non ha scrupoli
morali, si può raddoppiare, triplicare i propri beni. Questa inversione
del nesso causale tra lavoro e ricchezza sta avendo un impatto perverso,
perché non riguarda solo la sfera dell’economia, ma anche le nostre mappe
cognitive, è entrata cioè nella cultura popolare, nelle nostre famiglie,
anche se non ce ne accorgiamo” (1). Senza dubbio la speculazione finanziaria
è un tipico esempio di cultura predatoria che è riuscita ad affermarsi
e a legittimarsi nella società.
Coerente con la rivalutazione della vita quotidiana dovrebbe essere una
nuova percezione del lavoro manuale “non meccanico”: il lavoro tramite
le mani dovrebbe ritornare ad essere espressione dell’anima. Famosa è
la
frase francescana “e io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare...
voglio che tutti lavorino” (2).
Ma come è noto, nella società esistono tipologie di lavori ripetitivi
e penosi a causa della perdurante avidità di coloro che producono e consumano
determinati prodotti. Il lavoro affermava Olivetti,
“dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento
di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a
un nobile scopo [...]. Conoscevo la monotonia terribile e il peso dei
gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o ad una pressa, e sapevo
che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Ma
il cammino era tremendamente lungo e difficile” (3).
Simone Weil aveva evidenziato l’importanza del lavoro manuale “non certo per il suo rapporto con ciò che produce bensì per il suo rapporto con l'uomo che lo esegue; deve costituire per ogni essere umano ciò di cui ha bisogno nel modo più essenziale affinché la sua vita assuma per se stessa un senso e un valore ai suoi propri occhi. Anche ai giorni nostri, le attività che si dicono disinteressate, lo sport o persino l'arte o il pensiero, non riescono forse a dare l'equivalente di ciò che si prova mettendosi direttamente in contatto con il mondo mediante un lavoro non meccanico” (4). Per Weil il lavoro, espressione dell’anima, procura sentimenti di gioia autentici e deve essere posto al centro della cultura: “quale meravigliosa pienezza di vita non potremmo attenderci da una civiltà in cui il lavoro fosse sufficientemente eccellenza? Esso dovrebbe allora trovarsi al centro stesso della cultura [il cui valore vero] consiste nel preparare alla vita reale, nell'armare l'uomo perché possa intrattenere con questo universo che ha avuto in sorte e con i suoi fratelli la cui condizione è identica alla sua, rapporti degni della grandezza umana” (5).
In queste accezioni, il lavoro diventa espressione della dignità umana
e non di abbrutimento.
Oggi abbiamo bisogno di lavorare molte ore al giorno consecutive non perché
sia necessario per il nostro reale benessere, ma perché abbiamo creato
un sistema di vita che dà spazio prioritario a una miriade di bisogni
superflui e dannosi, funzionali alle visioni egocentriche di pochi. In
un regime di vita “normale”, potrebbe essere sufficiente lavorare poche
ore al giorno al fine di consacrare il resto del tempo ad attività nutritive
della parte più autentica dell’uomo (6). Evidentemente, solo un approccio
sistemico può modificare oggi le attuali condizioni di vita socio-economiche.
Il lavoro umano, come l’attività economica, dovrebbe essere finalizzato
non “alla produzione di denaro o di merci per l’accumulo di capitale o
all’acquisizione di beni superflui” ma a supporto della vita e della sua
sostenibilità, cercando di soddisfare in primis i bisogni primari materiali
e spirituali (7).
1.
S. Zamagni, Fraternità, sviluppo economico e società civile cit.
2. Francesco di Assisi, Testamento, 1226, www.ofm.org.
3. A. Olivetti, Prime esperienze in una fabbrica, in Società Stato Comunità
cit., p. 3.“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti.
Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la
fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare
le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione
e cultura. A volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai
che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene
voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza. Abbiamo portato
in tutti i paesi della comunità le nostre armi segrete. I libri, i corsi
culturali, l’assistenza tecnica nel campo della agricoltura. In fabbrica
si tengono continuamente concerti, mostre, dibattiti. La biblioteca ha
decine di migliaia di volumi e riviste di tutto il mondo. Alla Olivetti
lavorano intellettuali, scrittori, artisti, alcuni con ruoli di vertice.
La cultura qui ha molto valore”, cfr. Olivetti
dei sogni perduti, Fatto Quotidiano 2011.
4.
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale,
Adelphi, 1983.
5 Ibidem.
6. O.M. Aïvanhov, Conférence “Les reserve des energies“, 8 Août 1942,
Prosveta.
7. Cfr. L. Boff - M. Hathaway, op. cit., pp. 603-604.
Riflessioni storiche sul nostro travaglio collettivo e individuale Modulo 1. Premessa storica. Riflessioni sull'evoluzione nella società delle idee laiche di solidarietà e fraternità. |
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Ricognizione del pensiero recente, maturato in tema di cooperazione e fraternità in prospettiva laica e sociale |
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Modulo 3. L’appello della cultura, nell’era della globalizzazione e delle interdipendenze, al valore di cooperazione, indispensabile quanto la libertà e l'uguglianza. |
La società e la Rete della vita. Riflessioni a supporto delle nostre scelte e di un possibile percorso di cambiamento verso una coscienza aperta agli interessi della collettività. |
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Modulo 4. Il nuovo senso civico dello stare insieme in collettività, nella Rete della Vita. Il contributo della scienza .... Modulo 5. L’atto di cooperazione fraterna non è atto di impoverimento o di accettazione passiva dell’altrui egocentrismo Modulo 6. Perché il nostro “Io” si oppone alla cooperazione? Modulo 7. La nostra scelta avanti al bivio: Modulo 8. Il ruolo della coscienza e del modo di vivere per il cambiamento. Modulo 9. La moralità della vita vissuta condiziona i processi cognitivi.... Modulo 10. Gli apporti cognitivi dell’intelligenza del cuore. Modulo 11. Occorre superare il distacco tra cultura e modo di vivere... |
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