Modulo 6. Perché il nostro “Io” si oppone ai valori collettivi?

 

 

 

 

1. Gli impedimenti interiori all’accettazione dei valori di fraternità.

“Le ragioni ostative all’accoglimento della fraternità sono reperibili nella carente disponibilità interiore… dovuta alla dipendenza rispetto alle debolezze personali che abbisognano per essere soddisfatte di spazi ritenuti luoghi di libertà”

Mentre “empatia” e “cooperazione” non destano particolari problematiche pregiudiziali, invece, il nome “fraternità” ha destato fin dai secoli scorsi una certa prudenza e diffidenza per numerose ragioni: per le sfumature religiose che questa idea ha acquisito nel corso della storia, per i suoi impieghi impropri a finalità escludenti e oppositive, per la difficoltà di comprenderne i contenuti concreti, per gli eccessi di sentimentalismo e gli usi demagogici di taluni sostenitori, per la paura profonda di perdere le proprie acquisizioni materiali, la propria identità o status in conseguenza di eventuali azioni di livellamento sociale. In taluni, poi, il nome “fraternità” evoca l’idea di comunità religiosa, settaria, chiusa e spenta; in altri una certa dose di sospetto, come se la fraternità, per dirla con Flaubert, non fosse altro che una invenzione dell'ipocrisia sociale, oppure, come sostenevano alcuni politici nella seconda metà dell’Ottocento, un espediente per tenere addormentate le classi sociali più disagiate.
La fraternità non ha avuto nel passato un grande successo nella cultura laica (1) e neanche presso i politici, a differenza di quanto è accaduto con i principi di libertà e di uguaglianza (2), come abbiamo già evidenziato.
Ma oggi le cose stanno cambiando a un punto tale che la fraternità per molti assurge a precondizione necessaria affinché si possa attribuire significato reale e non demagogico ai valori di libertà e eguaglianza (cfr. modulo III). In questa ascesa, la fraternità supera, ricomprendendola, la solidarietà rivelatasi, oggi, insufficiente rispetto alla gravità dei problemi da affrontare. Solo la fraternità appare in grado di anestetizzare la corsa al profitto, all’inquinamento fisico e psichico dell’ambiente naturale e sociale.
Ma reintrodurre la fraternità nel cuore del dibattito pubblico, come ha evidenziato Baggio, non è facile in quanto permangono problematiche pregiudiziali condizionanti la disponibilità verso l’idea di fraternità. Ad esempio, si è osservato che le radici cristiane dell’idea di fraternità sono di ostacolo a una condivisione generalizzata della stessa. Ma lo stesso Baggio egregiamente risponde a queste considerazioni: “ritirare fuori l’obiezione che la fraternità sarebbe un concetto religioso ci farebbe dunque ritornare al dibattito, ampiamente superato e risolto, dell’Ottocento. L’obiezione appare anche priva di significato scientifico, mantenendone invece solo uno polemico. È evidente che la fraternità è un’idea di origine religiosa; e questo vale non solo per la religione cristiana, ebraica, islamica, ma anche per quella degli antichi Egizi, per gli Irochesi, per i Piaroa dell’Orinoco. Gli studi etnologici e di antropologia culturale ci attestano che tutte le grandi idee relazionali di cui l’umanità contemporanea fa uso hanno origine nelle narrazioni originarie (mitologie) di carattere religioso. Dire che la fraternità ha un legame con la religione è dire un’ovvietà. Ciò che ci deve interessare sono i contenuti culturali che queste idee di origine religiosa hanno trasmesso alle culture viventi, contenuti che si sono arricchiti e modificati nel corso delle esperienze storiche e che vengono assunti e vissuti indipendentemente dalla loro origine religiosa e dai sacerdoti, druidi o sciamani che ce li hanno trasmessi. Se le religioni dalle quali provengono i contenuti fraterni sono ancora vive e se esse continuano a nutrire la società con i loro contributi, questo costituisce un arricchimento, non un problema, dato che, nello spazio pubblico, gli elementi di fraternità vengono presi in considerazione per i loro aspetti civili e non per le eventuali motivazioni religiose che li producono” (3).
Un’altra tradizionale obiezione concerne la difficoltà di cogliere il quid comportamentale della fraternità in termini giuridici e conseguentemente politici. Come già osservato, proprio la difficoltà di attribuire rilievo giuridico alle obbligazioni discendenti dal principio di fraternità avrebbe portato storicamente alla valorizzazione della solidarietà: “La difficoltà di giuridicizzare la fraternità sarebbe infatti una delle cause della sua progressiva sostituzione con la nozione di solidarietà, la quale a differenza della fraternità, non richiederebbe il sentimento di adesione interiore, di simpatia e d'amicizia verso l'Altro” (4). Così, ad esempio, si è rilevato come in Francia è stato accettato un Ministro della “Solidarité nationale” e un patto civile di solidarietà, ma non sarebbe stato ugualmente accettato un Ministro della Fraternità: “on frémit à l'idée orwelienne d'un ministre de la Fraternité, qui se surajouterait à celui de la Vérité” (5).
La banalizzazione della idea di fraternità operata da alcuni intellettuali, a nostro avviso, ha radici diverse da quelle asserite a tutela del “buon senso” e della “concretezza”. La genericità delle obiezioni denuncia un grande disagio: la fraternità è un principio esigente non tanto dagli altri quanto da noi stessi in quanto ci richiede una attitudine globalmente generosa e ciò ci procura tensione e anche scetticismo sulla sua realizzabilità da parte degli altri. L’adesione alla fraternità ci chiede un cambiamento interiore profondo verso l’altro, non una semplice adesione intellettuale, fideistica o emotiva.
Afferma Mattei che ”con la libertà e l’eguaglianza le cose effettivamente sono più chiare, perché queste parole parlano soprattutto di me, della mia identità, dei miei diritti: una traduzione giuridica e politica è possibile. Mentre la fraternità mi parla innanzitutto dell’altro, di tutti gli altri e non più semplicemente di me… e forse dell’altro prima di me. La fraternità ci parla dell’abisso che rappresenta l’altro di fronte a me e mi dice qualche cosa di difficile da ascoltare e da integrare tramite la coscienza” (6).
Anche Manghi osserva che se riflettiamo sulla fraternità, non tanto come “adesione individuale a un ideale condiviso di solidarietà, contrapposto all'ideale individualistico”, quanto come “riconoscimento fattuale” dell’altro, dobbiamo ammettere che la difficoltà di vivere questo riconoscimento dell’altro esiste e ci spinge alla scelta individualistica: ”stiamo parlando di una difficoltà soggettiva generalizzata, che viene dalla sfida più radicale che noi esseri umani abbiamo mai incontrato nella nostra storia […]. La prima società i cui confini coincidono con quelli dell'intero pianeta. La prima società nella quale gli sconosciuti si affacciano alla soglia del nostro “Io” a sciami ogni giorno crescenti, obbligandoci a riflettere a fondo, più di quanto non abbiamo mai fatto fino a oggi, su che cosa intendiamo con la parola ‘relazione’ e a ripensare a fondo, appunto, la nostra nozione più familiare di fraternità” (7).

Vi sono quindi remore profonde verso la fraternità che non concernono soltanto il timore di diminuire eventualmente i possessi materiali. Vi sono remore di ordine interiore tra le quali, a ben vedere, a nostro avviso, dobbiamo includere, oltre alle difficoltà di accettare l’altro, anche il timore di diminuire l’estensione dei nostri bisogni e dei nostri piaceri. Abbiamo il timore e la difficoltà di fare i conti con il nostro Ego. Abbiamo la paura di dover attraversare la cruna dell’ago. Questo è il grande scoglio che tutti noi dobbiamo affrontare, a cui accennavamo nelle prime pagine. Questo ostacolo è particolarmente temibile per la cultura intellettualistica cioè per quella cultura che ha separato la conoscenza intellettuale dalla vita vissuta.

 

Sulle remore di ordine interiore allo sviluppo della fraternità, “principale pietra d’inciampo dell’occidente”, il genio di Dostoevskij ha dedicato le seguenti condivisibili riflessioni: ”Liberté, égalité, fraternité. Molto bene. Che cos’è la libertà? La libertà. Quale libertà? La libertà, per tutti uguale, di fare quello che si vuole, nei limiti della legge. Quando è possibile fare tutto quello che si vuole? Quando si possiede un milione. La libertà dà un milione a testa? No. Che cos’è un uomo senza un milione? Un uomo senza un milione è colui che non fa tutto quello che vuole, bensì è colui del quale si fa tutto quello che si vuole. Cosa dunque ne consegue? Ne consegue che, oltre alla libertà, c’è ancora l’uguaglianza, e precisamente l’uguaglianza davanti alla legge. Di quest’uguaglianza davanti alla legge si può dire soltanto che nelle forme in cui essa viene adesso applicata, ogni francese può e deve prenderla per un’offesa fatta a lui personalmente. Che cos’è dunque rimasto della formula? La fratellanza. Bene, quest’articolo è il più curioso e, occorre riconoscerlo, ha costituito fino ad oggi la principale pietra d’inciampo dell’occidente… Ma nella natura francese, e in genere in quella occidentale, di fratellanza non se n’è riscontrata; s’è riscontrato invece il principio personale, il principio dello starsene per conto proprio, dell’autosufficienza, dell’autodeterminazione del proprio Io personale, della contrapposizione di questo Io alla natura tutta e a tutta la restante umanità in quanto singolo principio autonomo, e di per sé solo assolutamente uguale e equivalente a tutto quello che esiste al di fuori di esso. Bene, da una tale contrapposizione non poteva certo derivare la fratellanza. Perché mai? Perché nella fratellanza, nella fratellanza vera non è la singola personalità, non è l’Io che deve arrabattarsi per affermare il proprio diritto all’aver egual peso ed egual valore di tutto il rimanente, ma proprio questo rimanente dovrebbe esso stesso andare da tale singola personalità che rivendica il proprio diritto, da questo io singolo, e, senza che glielo si chieda in alcun modo, ammetterne l’equivalenza in peso e valore con se stesso, cioè con tutto quel che esiste al mondo […]. Ma la personalità occidentale non è abituata a un tale andamento delle cose: essa rivendica con la lotta, esige questo preciso diritto, vuole che tutto venga ben spartito: e non ne viene certo fuori la fratellanza” (8).


Alcuni pensatori, nella stessa direzione di indagine, hanno messo in evidenza, acutamente, che la scarsa attenzione riservata alla fraternità non si spiega soltanto sulla base della sua asserita incerta natura giuridica. La ragione profonda, invece, risiederebbe nel fatto che la fraternità implicando i doveri e quindi visioni dell'uomo e della vita propri di una società di tipo oblativo, si scontrerebbe con i nostri modelli sociali imperanti ove prevalgono il prendere, l’acquisire, l’istintività, etc. Questo contrasto tra i valori di collettività propri della fraternità e i valori individualistici propri di libertà e uguaglianza si sarebbe manifestato da subito, fin dai tempi della Rivoluzione francese. In altri termini, la fraternità, si è detto, appariva inconciliabile con l'égalité e, soprattutto, con la liberté in quanto “la fraternità ha la missione di unire, collegare, mentre libertà e uguaglianza promettono, al contrario, l’indipendenza degli uomini. La Rivoluzione francese faceva riferimento ad individui autonomi, mentre la fraternità è organicamente legata alla vita dell'unità. Fin dai primi giorni della rivoluzione, il suo matrimonio difficile con la libertà e l'uguaglianza apre il divario vertiginoso tra diritti e doveri, ragione e sentimento, l'individuale e il collettivo” (9).

Ma tuttora, a distanza di secoli, il principio di fraternità, si è osservato, non sarebbe gradito giacché la nostra epoca è sempre più caratterizzata dal rifiuto tendenziale di tutto ciò che può limitare la realizzazione dei desideri e dei piaceri personali: questo timore prova, indirettamente, che in effetti, “il principio di fraternità, lungi dall'appartenere a un orizzonte culturale costruito intorno a facili e buoni sentimentalismi, è, al contrario, il principio in assenza del quale la civilizzazione non sarebbe neppure pensabile. È il principio senza il quale cadremmo nella dissoluzione morale generale […] dove impera il diritto di proprietà sul godimento, sempre, a ogni costo”(10).


Le affermazioni sopra riportate circa la ricerca estrema del soddisfacimento personale hanno un loro riscontro “nella riflessione avvenuta in campo psicanalitico […] l'ipotesi sostenuta è che negli ultimi trent'anni, in tutte le società occidentali, sarebbe intervenuto un mutamento nell'economia psichica dei soggetti tanto profondo da comportare una discontinuità con l'humus umano quale è stato rappresentato nella storia della nostra civiltà” (11). Secondo questa riflessione, ”la «nuova economia psichica», tipica dell'epoca ipermoderna, sarebbe caratterizzata dal passaggio da una cultura fondata sulla rimozione dei desideri, sulla nevrosi, a un'altra che raccomanda, al contrario, la loro libera e illimitata espressione […] la grande filosofia morale di oggi consiste nel fatto che ogni essere umano dovrebbe trovare nel suo ambiente ciò di cui soddisfarsi, pienamente. E, se così non succede, è uno scandalo, un deficit, un dolo, un danno. Così, dal momento in cui qualcuno esprime una qualsiasi rivendicazione, ha il legittimo diritto, e la legislazione, se è in difetto, viene rapidamente modificata, di veder soddisfatta la sua rivendicazione […] e questo lo si nota in tutti i campi […]. Nella situazione attuale, non appena c'è un'aspettativa di questo genere essa diviene legittima, e diviene legittimo che trovi soddisfazione. In altri termini, di fronte a sempre nuove possibilità di godimento, impera sempre la domanda: perché no? Tutta la storia del pensiero occidentale ci ha insegnato che la bontà (naturale o artificiale) dell'ordine costituito risiede, al contrario, proprio nell'accettazione da parte degli uomini di limiti alla loro libertà naturale. In fondo, la civilizzazione non è nient'altro che la disposizione degli uomini al sacrificio di una parte del desiderio, al contenimento delle loro passioni sfrenate (e il contrattualismo, compreso quello hobbesiano, è la versione razionale di tale civilizzazione)” (12).


Anche Donati osserva criticamente che “tutto ciò che è socialmente possibile diventa etico. La vita sociale sembra perdere le qualità che fino a ieri le attribuivamo… e cioè il fatto che le relazioni sociali siano espressioni della persona e della sua soggettività… il calore delle relazioni famigliari, nella coppia, tra genitori e figli si stempera sempre di più… si tratta di irruzione del non-umano nel sociale che si distacca sempre più dall’umano. La novità radicale consiste nell’emergere di un sociale che separato dall’umano non ammette giudizio etico” (13).
Nella stessa linea critica, Berselli ci segnala come un politologo di grande notorietà, D. Bell, l'inventore della formula sulla «fine delle ideologie», abbia illustrato efficacemente gli effetti corrosivi del mercato sulla vita culturale della società contemporanea: “La vita morale della modernità è stata lasciata senza guide trascendentali. La cultura si è cosi separata dall'economia e dalla vita sociale. Il capitalismo […] si è arreso agli imperativi del piacere e del gioco, del consumo. Il liberalismo (nell'accezione americana) incoraggia la libertà individuale e la sperimentazione nell'arte e nella letteratura cosi come nella vita economica. E tuttavia, agli occhi di Bell, tale sperimentazione, allorquando penetra nelle aree della vita familiare, della sessualità e dell'esperienza morale in generale, produce un individualismo sfrenato che minaccia la struttura sociale e crea il vuoto. «Nulla è proibito» e «tutto dev'essere esplorato»: «l'assenza di un sistema di credenze morali radicate è la contraddizione culturale della società, la più grave minaccia alla sua sopravvivenza»“ (14).
L’insofferenza ad accettare limitazioni alla ricerca massima dei piaceri personali si riflette anche nelle relazioni con la natura e tutto il cosmo: ”una sfida fondamentale per gli esseri umani in quanto specie, implica la necessità di accettare i limiti, rinunciando di fatto alla dipendenza dal consumismo. In realtà, come sottolinea T. Berry, la "legge dei limiti" è "principio cosmologico ed ecologico fondamentale. Eppure, la modernità in massima parte ha rappresentato un rifiuto di questo fondamentale imperativo: recentemente l'umanità ha tentato di rapportarsi alle realtà cosmiche distruggendo la resistenza, negando il suo costo intrinseco e aumentando l'intensità dei propri desideri. Se incontriamo una qualche resistenza, ci adoperiamo per eliminarla. Se l'universo ci chiede il tributo necessario per lo sviluppo, noi rispondiamo non pagando il conto. Da un lato, se scopriamo nuovi desideri umani, profondiamo sforzi immani per fomentare questi desideri, indipendentemente da quanto superficiali e onerosi siano per gli altri membri della Terra […]. La cultura della modernità è arrivata a considerare le limitazioni qualcosa di negativo, eppure ogni autentico equilibrio richiede un certo grado di contenimento” (15).
Si è anche posto in luce che per essere liberi da limiti e da regole abbiamo rimosso la presenza di Dio e del padre e ciò ci ha condotto necessariamente a negare la fraternità: “L’idea stessa di fraternità ha dei contenuti che vincolano: necessariamente la fraternità è ricevuta: come potrebbe non esserlo? E come potrebbe non presupporre un’idea di paternità? Se si vuole separare la fraternità dalla paternità, viene a mancare il principio regolativo dell’autorità, e nasce una sorta di “fraternità conflittuale” dei fratelli senza padre” (16).
Sulla base delle precedenti riflessioni, si può sostenere che il valore di fraternità è osteggiato non tanto perché comprime l’autonomia e la libertà individuale, quanto per il fatto che non si armonizza con la mitizzazione della trasgressione e del piacere. Osserva Girard sul punto che “i moderni si immaginano sempre che le loro inquietudini e le loro delusioni derivino dagli intralci opposti al desiderio dai tabù religiosi, dai divieti culturali… Una volta rovesciate queste barriere, essi pensano sboccerà il desiderio; la sua meravigliosa innocenza porterà finalmente i suoi frutti... Tutto il pensiero moderno è falsato da una mistica della trasgressione” (17).
Peraltro, non è un fuor d’opera segnalare che la fraternità di matrice cristiana si colloca in una prospettiva teorica che non è limitante del singolo individuo posto che, come notava Hegel, “il diritto della particolarità del soggetto a trovare il proprio appagamento, vale a dire il diritto della Libertà soggettiva, costituisce la chiave di volta e il punto centrale nella differenza tra l'antichità e l'epoca moderna. Questo diritto, nella sua infinità, è stato espresso nel Cristianesimo e qui è stato reso principio universale reale di una nuova forma del mondo. A configurazioni più particolari di esso appartengono l'amore, il principio romantico, il fine della beatitudine eterna dell'individuo” (18). In questa affermazione ritroviamo implicitamente l’atavico contrasto tra l’appagamento dell’Io tramite lo sviluppo delle proprie facoltà interiori e l’appagamento tramite la ricerca dei piaceri. Due modi di vivere che vanno in direzioni esattamente opposte. Storicamente, abbiamo dato preponderanza alla seconda ricerca e l’abbiamo difesa aspramente. Ma una parte dell’umanità inizia a stancarsi della corsa al piacere ad libitum, una corsa senza via d’uscita e comincia a ricercare un appagamento diverso.
Noi crediamo ingenuamente, osserva Serres, che “la vecchia condotta del popolo romano, che reclamava senza posa panem et circenses, pane e giochi, fosse risultato del suo stato di decadenza. Assolutamente no: essa ne era causa. Credere, infatti, che una società non viva che di pane e di giochi, di economia e di spettacolo, di potere d'acquisto e di media, di banche di televisioni, come facciamo noi oggi, costituisce un tale controsenso nel funzionamento reale di ogni collettività che questa scelta esclusiva, erronea, la precipita verso la sua fine pura e semplice come si è visto per l'antica Roma. Ciò equivarrebbe a dire, per esempio, che a un organismo sia sufficiente vedere e mangiare; ma senza respirare e né muoversi né bere esso morirebbe presto” (19).
A supporto dell’idea che la fraternità possa essere, al contrario, motore di libertà autentica, si è sostenuto che la fraternità, invitando a «rassembler» e a «relier» (20), richiama ”gli individui al legame elementare che li unisce, e ciò rappresenta effettivamente una minaccia permanente per quelle istituzioni che tendono a isolarli per meglio potenziare la separatività e quindi, in ultima analisi, per meglio dominarli” (21). Secondo questa prospettiva, la fraternità appare inconciliabile con l’asservimento, palese o surrettizio, della coscienza ed è per questa ragione che si cerca di convincere l’opinione pubblica, al fine di tenerla dormiente, che la fraternità è una utopia.
In definitiva, le vere ragioni ostative all’accoglimento della fraternità non sembrano reperibili nelle diversità riscontrate nelle teorie politiche o nelle speculazioni filosofiche o religiose, ma nella carente disponibilità interiore dovuta, soprattutto, alla dipendenza rispetto alle debolezze personali che abbisognano per essere soddisfatte di spazi ritenuti, paradossalmente, luoghi di libertà, spazi che verrebbero ad essere compressi dalla fraternità.
Dunque, il nostro ‘Io’ si oppone e preferisce ritenere utopica la fraternità in quanto teme di scomparire, cioè di perdere la propria identità e libertà. Il problema è capire di quale “Io” parliamo: dell’identità costruita sul nostro sé egocentrico, oppure, dell’identità costruita sul nostro Sé cooperatore? Senza dubbio parliamo della prima identità. Peraltro, tutto ciò fa parte della nostra esperienza verificabile: una volta che noi abbiamo rinunziato, ad esempio, ad una determinata debolezza, non ci siamo sentiti svuotati; pur perdendo un qualcosa, ci siamo sentiti liberati e arricchiti. Tutto dipende, dunque, dal “Sé” con il quale il nostro l’Io si identifica. Peraltro anche il monito evangelico valorizza l’idea che per vivere veramente occorre morire, cioè rinunziare alle manifestazioni egocentriche (22). Non dobbiamo dimenticare, per cogliere il cuore di questa argomentazione, che il sé egocentrico genera (anche nella prospettiva buddista) una errata percezione dell’Io e degli “altri”: siamo, osserva Ricard, “fondamentalmente interdipendenti con gli altri esseri e con il nostro ambiente. La nostra esperienza altro non è che il contenuto di un flusso mentale, di un continuum di coscienza, e l’io non è un’entità distinta da questo flusso. Dobbiamo immaginarlo come un’onda che si propaga, influenzando il proprio ambiente ed essendone influenzata, senza per altro trasportare alcuna entità. Ma siamo talmente abituati a mettere su questo flusso mentale l’etichetta dell’io che ci identifichiamo con quest’ultimo e temiamo disperatamente che possa scomparire. Ne consegue un forte attaccamento alla propria identità e al concetto di “mio”: il mio corpo, il mio nome, la mia mente, le mie proprietà, i miei amici… Da ciò scaturiscono sia il desiderio di possesso, sia l’avversione verso gli altri. I concetti di “me” e di “altro” si cristallizzano nella nostra mente portando al sentimento erroneo di un dualismo irriducibile che è alla base di tutte le altre afflizioni mentali, i desideri alienanti, l’odio, l’invidia, l’orgoglio e l’egoismo… la percezione erronea di un io reale e indipendente è all’origine dell’egocentrismo” (23).
L'effetto più dannoso di tale illusione, osserva Aïvanhov, “è che essa trascina gli esseri umani sulla via della separatività. Non è il mondo, come credono certuni, ad essere “maya”, ma il nostro «sé» inferiore, perché esso ci spinge sempre a considerarci come esseri separati dagli altri e separati dall'Universo. Il mondo non è maya; il mondo è una realtà, ed è una realtà anche la materia. L'illusione è crederci separati dalla vita universale, da quell'Essere unico che è dovunque, ma che noi non possiamo né sentire né comprendere, perché il nostro «sé» inferiore ce lo impedisce” (24).

 


Siamo tutti coinvolti da questa ambivalenza e siamo tutti chiamati a compiere una scelta. Il travaglio che stiamo attraversando nella società può essere ben rappresentato dalla metamorfosi da bruco (sé inferiore) a farfalla (Sé superiore), immagine alla quale ricorre Aïvanhov per descrivere lo stadio attuale della nostra filosofia di vita e del balzo in avanti che possiamo compiere: secondo la logica del bruco, il mondo intero è stato fatto per lui, e ciò gli dà il diritto di devastare tutto senza preoccuparsi... ha bisogno di mangiare le foglie, cioè di soddisfare i suoi appetiti a scapito degli altri... Ma un giorno prova vergogna per il suo comportamento e decide di migliorarsi; inizia allora a concentrarsi, a meditare e un bel giorno si manifesta come farfalla (25). Anche Morin recentemente ha fatto ricorso alla stessa metafora: “quando un sistema è incapace di risolvere i suoi problemi vitali, si degrada (conflitti etno-politico-religiosi che tendono a trasformarsi in scontri di civiltà), si disintegra (pericolo nucleare), oppure riesce a suscitare un metasistema capace di risolverli: si trasforma. Che cos’è una metamorfosi? Ne vediamo infiniti esempi nel regno animale. Il bruco che si imbozzola in una crisalide” (26).

 

 

 

1. Margalit osserva: “C'è anche un altro motivo, tuttavia, per cui studiosi e pensatori hanno preferito non dilungarsi sul tema della fratellanza: il vago sentore di kitsch morale. Quest'ultimo attrae attivisti e propagandisti, com'è noto, ma scoraggia gli autorevoli pensatori… Il vero neo del kitsch è il sentimentalismo, che a sua volta ha il difetto di distorcere la realtà… Milan Kundera arriva addirittura a sostenere che la vera prerogativa della sinistra non è una particolare teoria, bensì il kitsch della "grande marcia della fratellanza sorridente". Non condividiamo quest'ultima osservazione, ma rileviamo che l'ambiguo sentimento di fraternità e la moralità kitsch che così facilmente vi si accompagna hanno sovente scoraggiato i grandi pensatori dal trattare seriamente il fenomeno”, A. Margalit, Solidarietà, che cosa è oggi, in Reset, Luglio-Agosto, 2008, p. 77. Cfr. I.M. Pinto, Costituzione e fraternità cit., p. 14.
2. Libertà e uguaglianza “possono sempre essere accostati a dei genitivi (libertà di stampa, uguaglianza dei diritti) che ne specificano il senso e ne moltiplicano l'uso. Fraternité, invece, sta da sola. La sua potente carica affettiva, sottolineata da un'iconografia piena di uccelli, di cuori, di bambini, di baci, di mazzolini di fiori, dispensa dal precisarla ulteriormente, impedisce di attribuirle una rivendicazione e di prevedere una sanzione legale alle mancanze che le potrebbero essere fatte. Tra la liberté e l'égalité da una parte e la fraternité dall'altra, non vi è dunque uno statuto equivalente. Le due prime sono dei diritti, la terza un obbligo morale“ così M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese cit., p. 657. Cfr. I.M. Pinto, Costituzione e fraternità cit., p.15.
3. A.M. Baggio, La fraternità: una sfida politica cit.
4. I.M. Pinto, Costituzione e fraternità cit., p. 9.
5. Ibidem.
6. B. Mattei, Solidarité ou Fraternité cit.
7. S. Manghi, Ripartire dal legame fraterno, in Animazione Sociale, fasc. 267, vol. XLII, 2012, p.17. Negli ultimi decenni “l‘egemonia capillare dell'immaginario individualistico neoliberista, vorrei dire più rigorosamente narciso-liberista, in tutte le società avanzate, e non solo, ci ha immersi profondamente in un senso comune ottusamente refrattario alla consapevolezza che il legame relazionale è la materia prima, ci piaccia o no, di cui sono fatte le nostre vite“, ibidem.
8. F. M. Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, Editori Riuniti, 1984, pp. 71-73.
9. M. Ozouf, L'homme régénéré. Essais sur la révolution francaise, Gallimard, Paris, 1989, p. 158. Cfr. I.M. Pinto, Costituzione e fraternità cit., p. 17 e segg.
10. I.M. Pinto, ibidem.
11. Ivi, p.18. “Se con l'avvento della modernità il capitalismo ha avuto tanto successo è perché esso è la forma storica che, meglio di ogni alternativa, è stata capace di assorbire e plasmare la crescente quantità di energia individuale liberata dalla modernità - energia che, in epoche precedenti, era stata inquadrata all'interno di una visione religiosa- oggettivando il desiderio sia attraverso il denaro, inteso come mezzo universale, sia attraverso il benessere, materiale prima e immateriale poi” M. Magatti, Per una crescita di nuova generazione, www.tonioloricerca.it.
12. I.M. Pinto, op.cit., p.18 e segg.
13. P. Donati, Il significato del paradigma relazionale, in P. Donati, F. Colozzi (a cura di), Il paradigma relazionale nelle scienze sociali, Mulino, 2006, p. 54.
14. E. Berselli, L’economia Giusta, Einaudi, 2010, pp.19-20. La frase citata è di A. Giddens, Oltre la destra e la sinistra, il Mulino, 1997, p. 44.
15. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., pp. 500-501. Il pensiero di Thomas Berry è tratto da The Great Work, New York, Bell Tower, 1999.
16. A.M. Baggio, L'idea di fraternità tra due Rivoluzioni cit.
17. R. Girard, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, Adelphi, 1983, p. 355.
18. G.W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, 2006, p. 243.
19. M. Serres, Tempi della crisi, Boringhieri, 2010, p. 35.
20. M. Hunyadi, Dangereuse fraternité cit, p.172. La fraternità, sostiene questo autore, ha una portata potenzialmente universale, è un concetto prepolitico nel senso che designa qualche cosa d’antecedente alle istituzioni politiche e il fatto che possa avere un contenuto vago e poco operativo, è in realtà, la sua forza, “sa force performative”, ivi p.171.
21. Ibidem. La traduzione è nostra.
22. O.M. Aïvanhov, Natura umana e natura divina cit.
23. M. Ricard, Il gusto di essere felici, Saggezza e benessere in ogni momento della vita, Sperling & Kupfer, 2008.
24. O.M. Aïvanhov, Natura umana e natura divina cit.
25. Idem, Conferenza 9 aprile 1938, in Opera omnia n. 2, Prosveta, 2010, p. 9.
26. E. Morin, Elogio della metamorfosi cit.

 

Mappa cliccabile degli argomenti

PRIMA PARTE

Riflessioni storiche sul nostro travaglio collettivo e individuale

Modulo 1. Premessa storica. Riflessioni sull'evoluzione nella società delle idee laiche di solidarietà e fraternità.

SECONDA PARTE

Ricognizione del pensiero recente, maturato in tema di cooperazione e fraternità in prospettiva laica e sociale

Modulo 3. L’appello della cultura, nell’era della globalizzazione e delle interdipendenze, al valore di cooperazione, indispensabile quanto la libertà e l'uguglianza.

TERZA PARTE

La società e la Rete della vita. Riflessioni a supporto delle nostre scelte e di un possibile percorso di cambiamento verso una coscienza aperta agli interessi della collettività.

QUARTA PARTE

Ripensare le basi concettuali dell’educazione alla cittadinanza. Alle radici della questione morale...

Modulo 11 bis Il processo di adeguamento interiore alle prescrizioni civiche

QUINTA PARTE

Linee di sviluppo di nuove attitudini concrete, espressive dei valori di cooperazione, empatia...

Modulo 12. Mappa delle attitudini significative in coerenza con la visione sistemica della Vita

Attitudine a percepire la comune appartenenza alla Rete della Vita. La cura di se stessi
Attitudine alla scelta degli Ideali, pensieri e sentimenti per manifestare comportamenti civici
Attitudine alla scelta delle intenzioni
Attitudine alle relazioni empatiche. La rilevanza civica della empatia
Attitudine alla rivalutazione e alla sacralizzazione della vita quotidiana
Attitudine alla rivalutazione del corpo fisico e del suo apporto cognitivo
Attitudine a sperimentare il gusto e la pienezza della vita: la “scienza della Vita”
Attitudine a valorizzare il bene relazionale e i beni comuni
Attitudine alla rivalutazione del lavoro
Attitudine al dimensionamento dei bisogni individuali
Attitudine all'assunzione delle cariche pubbliche. L’esempio
Attitudine a relazioni improntate ai valori di giustizia
Attitudine al rispetto dell’ambiente interiore ed esteriore
Attitudine a vivere come cittadino dell’Universo