Modulo 11. Occorre superare il distacco tra cultura e modo di vivere: la cultura deve supportare non solo la speculazione intellettuale sul valore ma la ricerca della realizzazione del valore... |
1.
Superare il distacco tra cultura e modo di vivere: la cultura, da attività
intellettuale sul valore ad attività realizzatrice del valore
2. I luoghi di tirocinio delle attitudini cooperative ed empatiche
1. Superare il distacco tra cultura e modo di vivere: la cultura, da attività intellettuale sul valore ad attività realizzatrice del valore.
“La filosofia antica recava l’invito per ogni uomo a trasformare se stesso, era conversione, trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere”
I
valori più elevati sono spesso incarnati nella società da persone straordinarie
e noi ci siamo abituati a questo modello di “straordinarietà”, che è implicitamente
rinunciatario per molti di noi. Ma oggi, poche individualità non bastano.
La strada per incarnare i valori desiderati dovrebbe diventare una via
praticabile per tutti coloro che ritengano di voler essere meno predatori
e più cooperatori, nella vita affettiva, nel lavoro, nell’impiego delle
risorse della Rete della vita. Un percorso di vita evoluto dovrebbe essere
oggettivato, reso comprensibile e praticabile, rifuggendo da metodi brevettati,
da nuovi business, da dipendenze dogmatiche e umane e da garanzie temporali
di risultati: dovrebbe essere un fisiologico impegno di una vita, come
lo è, ad esempio, il nutrirsi. La cultura dovrebbe trasformarsi da mera
speculazione intellettuale sul valore, a cultura della realizzazione del
valore.
Dovremmo superare la lettura intellettualistica della vita, cui abbiamo
già accennato, che ha portato avanti il convincimento della irrilevanza
oggettiva della vita interiore, la banalizzazione della coerenza tra vita
interiore e vita esteriore e l’irrilevanza degli atti della vita quotidiana.
Una lettura intellettualistica, spesso, tesa a coprire la pratica delle
morali multiple. In pubblico esterno valori socialmente condivisi, in
privato perseguo solo le mie ambizioni e mi costruisco un contesto idoneo
ai miei obiettivi predatori da realizzare nella realtà sociale. Non a
caso, i vantaggi della vita sociale sono ancorati alle sole abilità intellettuali
e non alla moralità o all’autenticità.
Peraltro, l’insegnamento dei valori umani, osserva Ricard,
“viene generalmente considerato pertinenza della religione o della famiglia.
La spiritualità e la vita contemplativa vengono ridotte a delle specie
di vitamine dell’anima. Le conoscenze filosofiche, se acquisite, sono
spesso avulse dalla pratica, e ognuno deve trovare da solo le proprie
regole di vita. In questo momento, in cui si dispone della pseudolibertà
di fare quello che si vuole, senza però aver punti di riferimento certi,
ci si ritrova smarriti. Le considerazioni astratte e molto spesso incomprensibili
della filosofia contemporanea e lo stile di vita frenetico, con l’imperativo
del divertimento a ogni costo, lasciano poco spazio alla ricerca di una
fonte d’ispirazione autentica che dia una direzione alla nostra vita.
Come dice il Dalai
Lama: “Si vorrebbe che la spiritualità fosse facile, rapida e a buon
mercato”. Vale a dire inesistente” (1).
Il distacco tra cultura e modo di essere e di vivere, indagato ottimamente
da Hadot nel campo della storia della filosofia, deve essere, come sostengono
in molti, necessariamente ricucito. Hadot ci ricorda che la “filosofia
antica recava l’invito per ogni uomo a trasformare se stesso, era conversione,
trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere” (2). Solo
a partire dalla fine del secolo XVIII, rileva Hadot,
la nuova filosofia fa il suo ingresso nell'università e perde il connotato
di modo di vivere, di stile di vita: infatti, “la filosofia moderna è
anzitutto un discorso che si svolge nelle lezioni, che si affida a libri,
a un testo di cui si può fare l'esegesi […]. La filosofia antica propone
all'uomo un'arte della vita, mentre al contrario la filosofia moderna
si presenta anzitutto come la costruzione di un linguaggio tecnico riservato
a specialisti” (3).
Come è stato osservato recentemente, “nella nostra cultura il filosofo
inteso come “maestro di vita" o “sapiente" è una figura praticamente
scomparsa […] saremmo tentati di affermare che la nostra società è priva
di filosofi. Eppure la nostra cultura è piena di "professionisti"
di questa disciplina […]. Però sta di fatto che i "filosofi"
mancano; anzi, manca anche solo la pretesa di essere filosofi. E c'è di
più. Tale mancanza è ben lungi dall'essere avvertita come un difetto […]
questa situazione dipende in gran parte dal fatto che nella nostra civiltà
ha prevalso una particolare concezione della saggezza e della sapienza,
quella che, per dirla in maniera ultraschematica, fa coincidere la sapienza
con il sapere razionale, cioè "logico", e più propriamente con
quello epistemico" (4). Ma ciò che riguarda la filosofia, a ben vedere,
può essere esteso a tutte le manifestazioni culturali.
Ravasi ha ben messo in evidenza che la parola “sapienza” non può essere identificata con il vocabolo “intelligenza”. La sapienza è invece qualcosa di più e di oltre […] deriva dal latino sàpere e questo vocabolo in latino ha come primo significato non il sapere che sconfina con l’intelligenza, ma l’avere sapore, l’avere gusto […]. Ed è per questo che la sapienza ha bisogno certo anche di un pizzico di intelligenza, ma ha bisogno soprattutto di una grande carica di umanità, di una grande capacità di dare senso, sapore all’esistenza. Un genio come è stato Leonardo da Vinci diceva: “L’intelligenza senza la sapienza è come un naviglio, una nave senza bussola e senza timone può procedere, ma procede senza un approdo, senza una meta”. Ed è un po’ questo, io penso, il grande grido della società contemporanea che non trova più uomini sapienti, che non incontra più persone che sanno indicare la strada giusta […] per essere sapienti non basta la scatola cranica, non bastano i neuroni nel cervello, è necessario tutto l’essere della persona […] la sapienza è coinvolgimento dell’aspetto intellettivo, affettivo, volitivo dell’essere umano” (5).
Il sapere intellettuale da solo non trasforma la nostra esistenza (6).
Non si può essere fraterni nelle idee, nei sermoni e nelle affermazioni
verbali e predatore quando si mangia, quando si ama o quando si lavora.
Siamo obbligati, se vogliamo avanzare, a sincronizzare pensieri, sentimenti
e atti, cioè a far convergere tutto il nostro essere sui nostri ideali.
Per insegnare la fraternità, osserva Baggio, “bisogna viverla, perché
solo vivendola la si comprende” (7).
Se venissero recepiti nella nostra società concetti così pacifici, supportati
oggi anche dalla scienza, potremmo assistere al repentino cambiamento
del sistema formativo.
Infatti, un sistema formativo, ricorda Morin,
privo di anima offre solo una frammentazione del sapere e non insegna
a vivere: l’Emile di Rousseau
dice, invece, «voglio imparare a vivere» (8).
La cultura, quella vera, scrive Roszach, “è il collante che tiene unita
la comunità e la fa durare nel corso delle generazioni, più ancora del
potere economico e politico. La cultura costituisce l’anima, la forza
vitale di una comunità: è l’espressione collettiva di valori, arte, spiritualità
[…] parlo qui della cultura come stile di vita, distinta dalla cultura
come attività intellettuale” 9. Nelle nostre comunità, tutti lo possiamo
constatare, rischiamo di perdere proprio questa cultura, questo collante
naturale e sociale.
L’istruzione attuale prende in considerazione solo la sfera logica in
vista di reperire occupazioni nel mercato, la “cultura della realizzazione”
prende in considerazione anche la sfera del sentimento e della volontà
in vista del Lavoro nella Vita. L’istruzione ufficiale “incoraggia i giovani
soprattutto a competere e non a sentirsi parte della grande comunità vivente”
(10). L’istruzione dovrebbe, invece, offrire una comprensione più completa
e profonda di ciò che è costruttivo per l’individuo e per la sostenibilità
collettiva, anche perché come esseri umani “siamo automaticamente motivati
a fare ciò che crediamo sia bene per noi [...] non possiamo pensare che
la motivazione verso il cambiamento possa sorgere, fissando vincoli o
promettendo incentivi” (11).
La conquista dei valori di fraternità, bisogna evidenziarlo, è una immensa
rivoluzione culturale da perseguire lungo tutta la vita, ”richiede una
riforma radicale della nostra psiche individuale e collettiva mediante
auto e co-formazione, e nuove capacità psicosociali ed etiche […] è una
sfida che dobbiamo affrontare per diventare uomini migliori” (12).
Spesso invitiamo gli altri e noi stessi a portare nella vita sociale buoni
frutti (cioè comportamenti cooperativi ed empatici) però, malgrado i moniti,
nulla accade in quanto non sappiamo che dobbiamo piantare il seme appropriato
e farlo crescere. Anche gli inviti che riceviamo alla compassione e all’empatia
in realtà ci chiedono una semina preventiva in quanto sono esiti di processi
interiori, per taluni più immediati ma per altri più difficili. L’attesa
dei buoni frutti sembra essere destinata a essere vana, se non c’è una
semina negli atti della vita quotidiana. La cultura dovrebbe occuparsi
di questi aspetti molto trascurati anche perché se la nostra mente è incarnata
e riflette tutto l’organismo, anche i valori della cultura debbono essere
vissuti dal nostro organismo, se vogliamo una vita coerente e più sana.
Per questo vi è il bisogno di una cultura che aiuti a vivere la sacralità
dell’esistenza già nei piccoli atti quotidiani in quanto solo così si
può costruire gradualmente e radicare una nuova coscienza. Come un tavolo
si regge sui piedi, così la coscienza si regge sugli atti quotidiani.
Le prigioni, gli ospedali e i luoghi di sofferenza non si riducono con
le leggi o con i programmi politici, ma con una nuova impostazione pedagogica
della nostra esistenza. Il ruolo della scuola e del mondo accademico potrebbe
essere straordinariamente utile in questo processo di cambiamento.
Le riflessioni fin qui svolte inducono a condividere l’idea che la situazione
attuale in cui viviamo esige una cultura che non sia materialistica e
che non sia nemmeno indirizzata alla ricerca di valori esclusivamente
interiori di tipo individualistico ma di una cultura che coordini il perfezionamento
individuale con lo sviluppo della collettività (13). In tutti gli scambi
sui quali poggia la nostra vita, implicanti affetti, risorse umane e naturali,
siamo chiamati a comportamenti “evoluti”.
Vi è il bisogno di una cultura che contempli l’uomo nella sua totalità
e superi il dualismo corpo e mente. Una cultura sperimentabile, finalizzata
a vivere le qualità mediante il recupero del valore del cuore nei processi
cognitivi e comportamentali al fine di ricercare l’autenticità nella nostra
vita. Una cultura vasta in quanto deve prendere in considerazione tutta
l’area dei bisogni fondamentali dell’essere umano. Una cultura che valorizzi
la creatività di ognuno, posto che tutti, nessuno escluso, possono collaborare
e migliorare la qualità della Rete della Vita. Se accettiamo l’idea (anche
se, evidentemente, è una esemplificazione) che l’Occidente ha insegnato
l’importanza della materia e l’Oriente l’importanza dello Spirito e delle
attività interiori, dobbiamo convenire che abbiamo bisogno di entrambe
le sensibilità nel quadro di una riconciliazione tra spirito e materia,
senza interferire sulle appartenenze religiose. Le manchevolezze dell’Oriente
e dell’Occidente sono evidenti a tutti. Ma entrambi hanno fatto un percorso
di strada importante.
Non mancano i contributi di pensiero idonei a supportare questo percorso
di crescita, alcuni dei quali sono citati in questo testo. Sono numerosi
gli apporti costruttivi presenti in molte aree disciplinari. Abbiamo la
possibilità, scrivono anche Boff-Hathaway, “di optare per un nuovo modo
di vivere sul pianeta, un nuovo modo di vivere tra di noi e con le altre
creature del mondo. Numerose sono le fonti di ispirazione […]. Alcune
di esse sono antiche e provengono dalle diverse tradizioni culturali e
spirituali presenti nel mondo. Altre stanno nascendo adesso da ambiti
come l'ecologia profonda […] la nuova cosmologia che si fa strada a partire
dalla scienza. Una nuova visione della realtà, un nuovo modo di essere
nel mondo stanno diventando possibili” (14).
In questo contesto, ad esempio, il sistema filosofico e pedagogico di
Aïvanhov, offre certamente concrete opportunità, in termini di metodi
e argomentazioni, per impostare un cambiamento di prospettiva, in sede
di revisione e risacralizzazione della nostra vita quotidiana, al fine
di favorire la costruzione di una coscienza di fraternità.
2. I luoghi di tirocinio delle attitudini cooperative, empatiche e fraterne.
Se
accettiamo di correggere simbolicamente i nostri problemi di vista, dobbiamo
ridare al cuore il ruolo che gli compete per riequilibrare, innanzitutto,
i processi cognitivi e comportamentali. Se decidiamo di sperimentare la
sacralità della vita quotidiana, dobbiamo dare spazio alle istanze della
nostra natura cooperativa. In entrambi i casi, appare molto importante
potersi confrontare con possibili esempi concreti che possano aiutarci
nella cura di noi stessi.
In effetti, occorrono luoghi tendenzialmente esemplari ove si possa sperimentare
questo tirocinio e praticare l’arte della cooperazione fraterna nel vivere
quotidiano. Evidentemente, gli esempi possono anche non essere perfetti
ma questa è una ragione di più per dare il proprio contributo al miglioramento
del luogo nel quale si vive.
La fraternità “come afferma Martin
Luther King, si apprende. Per questo nell’apprendimento della nostra
umanità, l’educazione deve trovare il suo ruolo fondativo“ (15).
Occorrono luoghi caratterizzati non dall’erogazione di corsi teorici in
quanto a ciò provvede già l’istruzione, ma dalla pratica della parte altruistica
ed empatica. Occorrono luoghi (non sostitutivi della società, della famiglia
e della scuola), nei quali praticare l’etica nel pensare, nel modo di
nutrirsi, nel relazionarsi concretamente con gli altri; cioè luoghi di
sviluppo della reciprocità ove il sapere (umanistico e scientifico), evidentemente
necessario, è selezionato ed estratto in funzione del miglioramento contestuale
della vita vissuta; luoghi che esprimano concretamente un nuovo significato
degli atti della nostra vita quotidiana, affinché questi possano essere
vissuti consapevolmente (16). Peraltro questa appare essere la strada
maestra per apportare cambiamenti valoriali nelle organizzazioni umane
in generale, comprese quelle aziendali: “Un messaggio sarà raccolto non
solo perché ha una certa intensità o frequenza, ma perché per loro è pieno
di significato. Le organizzazioni umane non possono essere controllate
con interventi diretti, ma possono essere influenzate dando loro stimoli
invece che istruzioni […]. Lavorare con i processi intrinseci ai sistemi
viventi significa che non abbiamo bisogno di spendere un sacco di
energia per cambiare un'organizzazione. Per ottenere un cambiamento non
c'è bisogno di spingere, tirare o costringere. Il punto non è la forza,
o l'energia, ma il significato […] offrire stimoli” (17).
I nuovi valori potrebbero essere anche innervati nella organizzazione
dei pubblici poteri, introducendo figure dedicate in tema di cooperazione
ed empatia, per superare le rigidità dei moduli giuridici dell’azione
amministrativa. Non a caso le continue riforme della semplificazione
amministrativa sortiscono esiti sempre scarsi e incerti. Anche in
questo caso il cambiamento non potrà avvenire con le circolari ma con
una nuova consapevolezza del potere: occorre passare da “dominio e controllo
a cooperazione e collaborazione. Questa anche è un'implicazione fondamentale
per una nuova comprensione della vita […] i biologi e gli ecologisti sono
giunti a realizzare che in natura la maggior parte delle relazioni tra
gli organismi sono essenzialmente di tipo cooperativo. La tendenza ad
associarsi, stabilire legami, cooperare e mantenere relazioni
simbiotiche è uno dei tratti distintivi della vita […] il passaggio
dal dominio alla collaborazione corrisponde a passare dal potere coercitivo,
che minaccia di imporre delle sanzioni per ottenere l'adesione alle regole,
e dal potere compensativo, che offre incentivi economici e ricompense,
a un potere condizionato, che cerca di dare istruzioni significative mediante
la persuasione e l'educazione” (18).
I nuovi valori potrebbero essere anche innervati nelle scuole introducendo,
ad esempio, una materia concernente la cooperazione fraterna. La fraternità,
come ha rilevato Mattei, “non è né spontanea né immediata […] la fraternità
invece va appresa attraverso l’educazione e la formazione; ed è proprio
quello che dicevano anche i redattori della Dichiarazione
Universale nel preambolo al loro testo […]. La fraternità è oggetto
di un apprendimento non solo lungo la vita scolastica ma lungo tutta la
vita. Nelle scuole, ad esempio, si potrebbe cominciare con l’insegnare
ai bambini ed ai ragazzi come cooperare, come aiutarsi a vicenda, come
imparare con gli altri e grazie agli altri invece che contro gli altri
o giustapposti ad essi […] come purtroppo accade non di rado nelle scuole
delle nostre democrazie
liberali nelle quali si impone la libertà del più forte nel quadro
di una gara spesso precoce e feroce. Se la fraternità come categoria politica
avrà delle probabilità di avverarsi un giorno, si avverrà solo se la base
della società civile, cioè gli uomini, i cittadini decideranno di addossarsi
l’onere di relazioni fondate su delle pratiche sociali economiche e culturali
fraterne” (19).
Anche Aïvanhov ha formulato in modo articolato e approfondito questa necessità
formativa ed ha auspicato luoghi di tirocinio di fraternità, dove apprendere
concretamente a vivere fraternamente e a sviluppare, soprattutto, la coscienza
fraterna, condividendo alcuni momenti significativi della vita quotidiana,
per vincere la tendenza ad isolarsi e persino ad essere ostili gli uni
agli altri (20).
Anche il filosofo Alasdair
MacIntyre ha colto questa bisogno formativo e ha proposto comunità
vere e proprie al cui interno la civiltà e la vita morale possano essere
protette e coltivate per far fronte alla crisi valoriale che attanaglia
la società: “siamo in un punto di svolta decisivo, simile a quello vissuto
fine
dell’impero romano quando uomini e donne di buona volontà si distolsero
dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare
la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione
di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi
conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove
forme di comunità entro cui la vita morale poteva essere sostenuta, in
modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere
all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. Se la mia interpretazione
della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche
tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta” (21).
Anche Olivetti
aveva colto questa necessità formativa ma riteneva che fosse possibile
realizzarla direttamente nella società, precisamente, nella sua cellula
base cioè nella comunità locale concreta, quale spazio indispensabile
per sviluppare la vita associata in fraternità (22). Nella stessa prospettiva
sociale, Boff
propone il “bioregionalismo
cioè “società fondate su piccole comunità locali legate tra loro da una
rete di relazioni basate sull’uguaglianza, la condivisione e l’equilibrio
ecologico […] comunità che si sostengono e si rigenerano da sole […] l’estensione
di tali comunità dovrebbe corrispondere alle bioregioni naturali fondate
sull’ecologia, la storia naturale e la cultura di una area specifica e
dovrebbero rispecchiare i valori dell’autonomia e dell’armonia con la
natura” (23).
Al di là delle singole proposte, vi è comunque una condivisione generale
sul fatto che la “conoscenza
di sé” raramente emerge nell’isolamento. I momenti di vita comunitaria
sono essenziali per conoscere meglio noi stessi, grazie al processo interattivo
di identificazione con coloro che, condividendo gli stessi ideali, partecipano
alla vita comunitaria (24).
Per superare “l’impotenza interiorizzata” che ci attanaglia cioè la difficoltà
ad apportare trasformazioni interiori, è necessario recuperare il valore
della comunità grazie al quale possiamo vincere l’isolamento e sviluppare
compassione, solidarietà e forza interiore: “non possiamo sperare di trasformare
il nostro modo di essere umani nel mondo senza il sostegno e lo stimolo
di altre persone che condividono lo stesso percorso […] deve essere la
comunità il contesto all’interno del quale cerchiamo di guarire e stimolarci
l’un l’altro ad acquisire nuovi modi di essere” (25).
Si è anche aggiunto che le comunità in questione dovrebbero fondarsi,
beninteso, non su relazioni oppressive, né su diversi gradi di potere
e rispetto, ma sulla reciprocità e sul comune impegno alla crescita e
all’azione trasformatrice (26). A queste condizioni, le comunità possono
favorire l’empowerment e la liberazione della forza interiore attualmente
dormiente (27).
L'empowerment
“si contrappone ad ogni intervento educativo che crei dipendenza e sudditanza
nelle persone o nei gruppi cui si rivolge. Si contrappone all'assistenzialismo
e a progetti che non si propongano strutturalmente di contribuire alla
costruzione di individui capaci di autonomia e identità autosussistenti.
Oggi più che mai lavorare per una nuova cittadinanza attiva significa
operare per l’effettivo e critico empowerment di tutti i cittadini” (28).
Le soluzioni formative esperibili sono, dunque, in effetti numerose. Le
neuroscienze
ci dicono che siamo attrezzati a livello genetico per comprendere, immedesimarci
e cooperare con gli altri. La scienza ci dice anche che proviamo benessere
quando nutriamo relazioni altruistiche. Le nuove tecnologie ci dicono
che è agevole, materialmente parlando, incontrare e comunicare con gli
altri esseri umani da un capo all’altro della Terra. A questo punto occorre
il nostro impegno per sviluppare contenuti autentici e pacifici, dando
vita, ove possibile, a luoghi di apprendimento dei valori in esame.
1. M. Ricard, Il gusto di essere felici cit.
2. P. Hadot, op. cit., p. 167.
3. Ivi, p. 164.
4. R. Màdera, L. Tarca, La filosofia come stile di vita: introduzione
alle pratiche filosofiche, Mondadori, 2003, p.111 e segg.
5. G. Ravasi, Intervento a San Giovanni in Laterano cit.
6. “Anche se è indispensabile che i bambini e gli adolescenti vadano a
scuola e ottengano un titolo di studio, si è obbligati a constatare che
la formazione del carattere è più importante dello sviluppo dell’intelletto
[…]. Una cosa è l’istruzione, altra cosa l’educazione. Più che di professori
eruditi, i giovani hanno bisogno di istruttori che rivelino loro cos’è
la vita e come devono viverla affinché le forze, le qualità e i doni che
essi possiedono possano manifestarsi in pienezza. Finché non si porrà
l'accento sulla formazione del carattere, ma solo sullo sviluppo dell’intelletto,
le conoscenze impartite ai giovani nelle scuole e nelle università non
serviranno che al loro successo personale e a quel successo essi giungeranno
spesso a spese degli altri. Si insegni loro a lavorare anche sul proprio
carattere, a non cercare di utilizzare quel sapere solo a proprio vantaggio,
e si vedranno sorgere degli esseri in grado di far evolvere una società
intera” O.M. Aïvanhov, Pensieri Quotidiani, 10 aprile 2014, Prosveta.
7. A.M. Baggio, La sfida della fraternità cit.
8.Citato da Lilli, A scuola senza amore, Repubblica, 4 aprile 2007.
9. Citato da L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 606.
10. Secondo Boff - Hathaway, “se è vero che i sistemi educativi tendono
a scoraggiare le dipendenze dalle sostanze nocive, però tendono ad alimentare
l’ossessione sociale per il consumo illimitato incoraggiando i ragazzi
a lottare per un lavoro ben retribuito che garantisca il benessere materiale”,
ivi, pp. 182-185.
11. S. Zamagni, Gratuità e agire economico: il senso del volontariato,
Facoltà di Economia, Università di Bologna, Paper n. 9, 2005, www.aiccon.it.
12. B. Mattei, Solidarité ou Fraternité cit.
13. “In passato, gli insegnamenti spirituali conducevano gli esseri umani
sulla via della salvezza individuale. Il sapere, i poteri, l'illuminazione,
ovvero tutto ciò che si riusciva ad acquisire era finalizzato per se stessi,
per il proprio sviluppo e la propria elevazione. Ecco perché molti andavano
a isolarsi da qualche parte nei deserti, sulle montagne, nelle grotte
o nei monasteri per non essere disturbati. Ora però siamo entrati nell'era
della collettività, della fratellanza, e dobbiamo superare la filosofia
della salvezza personale. Occorre perfezionarsi, è chiaro, ma non isolarsi
fisicamente o spiritualmente per evitare di essere disturbati dagli altri;
al contrario, bisogna accettare gli inconvenienti, fare dei sacrifici,
soffrire persino, ma essere utili… Perfezionarsi per se stessi rappresenta
solo la metà del compito. Il nostro vero compito è quello di perfezionarci
per noi stessi e per gli altri, al fine di essere utili al mondo intero”
O.M. Aïvanhov, Pensieri Quotidiani, 24 ottobre 2014, Prosveta.
14. L. Boff - M. Hathaway, op.cit., p. 48.
15. B. Mattei, La fraternité: une valeur d’avenir? cit.
16. Il significato è essenziale per gli esseri umani: “Abbiamo continuamente
bisogno di dare un senso al nostro mondo interiore ed esteriore, di trovare
significati nel nostro ambiente e nelle nostre relazioni con gli altri
esseri umani e di agire in accordo a tali significati. Ciò comprende in
particolare il nostro bisogno di agire intenzionalmente, con uno scopo
o un obiettivo in mente” F. Capra - P.L. Luisi, op.cit., p. 392.
17. Ivi, p. 404.
18. Ibidem.
19. B. Mattei, Solidarité ou Fraternité cit.
20. O.M. Aïvanhov, Conferenza 5 agosto 1975 in Opera omnia n. 16, Prosveta.
21. A. MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, 1993, p. 313.
22. Cfr. V. Pazè, Comunitarismo, Enciclopedia delle Scienze Sociali, Treccani,
2001. Per A. Olivetti, la comunità è intesa come "diaframma umano
tra individuo e Stato", quale cellula base. “Nel caso di Olivetti
preponderante è l'influenza di pensatori cattolici come Maritain, Mounier,
Weil, destinati a lasciare consistenti tracce anche nel pensiero di alcuni
dei padri della Costituzione italiana del 1948, come La Pira e Dossetti.
Dettagliatamente progettata nelle sue dimensioni ideali (tra i 75.000
e i 150.000 abitanti) e nella pluralità delle sue funzioni economiche
e sociali, la comunità di Olivetti non è semplicemente un ente amministrativo
intermedio tra il comune e la regione. Per la sua grandezza 'a misura
d'uomo' e per le sue caratteristiche ambientali e urbanistiche, è pensata
per costituire un'autentica 'unità di sentimenti', uno spazio entro cui
anche gli antagonismi di classe vengono superati e sublimati in nome della
fratellanza e della solidarietà. Il pluralismo cui si ispira Olivetti
non è dunque conflittualistico come quello della tradizione liberale e
sindacalista, e rinvia piuttosto a quella concezione organicistica del
mondo che ha profonde radici nella tradizione cattolica“, V. Pazè, Comunitarismo
cit.
23. L. Boff - M. Hathaway, op. cit., p. 52-53.
24. M. Nozich, No Place Like Home, Canadian Council on Social Development,1992,
citato da L. Boff - M. Hathaway, op. cit., p. 223.
25. Ibidem.
26. M. Lerner, Surplus Powerlessness, Oakland 1986, citato da L. Boff
- M. Hathaway, op. cit., p. 223.
27. Ibidem.
28. L. Guerra, in Le parole chiave della cittadinanza democratica, a cura
di V. Baruzzi, A. Baldoni, Franco Angeli, 2008, p. 20.
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